Per essere Dicembre la mattinata era eccezionalmente mite, cioè la temperatura non era scesa sotto lo zero come sarebbe normale dalle mie parti, e il Sole ci ha dato la carica per affrontare la noia di centocinquanta chilometri di autostrada fino a Treviso. Vi confesso che tale escursione non era in programma, ritenevo eccessivi i rischi connessi all’instabile situazione sanitaria, soprattutto se si prevede di ritrovarsi in locali chiusi assieme a troppe persone, e non mi si venga a dire che un certificato di vaccinazione è una misura sufficiente di prevenzione, magari lo fosse. A tal riguardo vi rimanderei volentieri a un post scritto quasi cinque mesi fa dal mio sherpa/fotografo/guida/autista/webmaster/ecc. , intitolato “Un pezzo di carta”.
Sia come sia, non mi pareva bello mancare all’appuntamento con la mostra patchwork di Treviso, anche in considerazione delle molte difficoltà che l’associazione Patchwork Idea aveva di certo dovuto superare per riuscire a organizzare un’esposizione in questo periodo estremamente complicato, e così mi sono fatta coraggio e siamo partiti.
Posso dirvi che ne è valsa la pena, nel senso che, pur essendo la mostra forzatamente limitata negli spazi, tra le opere si palesava una certa propensione al rischio, quello che si corre quando si vanno a esplorare soggetti impegnativi e contaminazioni di tecniche. Chi segue questo blog sa già della mia ammirazione verso chi osa, ovviamente se lo fa senza cercare l’applauso, ma solamente per spirito di avventura artistica. Immagino che il titolo della mostra contenesse implicitamente un invito ai trevigiani affinché andassero a cercare le tracce di quello stile nella loro città, elementi che da troppo tempo stanno soffrendo, soffocati da un’edilizia irrispettosa di ogni forma di bellezza e condannati a diventare sterili testimonianze museali, siano esse un piccolo manufatto o un edificio intero.
A proposito della definizione “Liberty”, essa è frutto di un doppio malinteso. Il primo sta nella sua genesi. Il nome originale di questo stile germogliato in Belgio e sbocciato in Francia era “Art Nouveau”, poi tradotta in italiano in “Arte Nuova” e traslata anche in “Arte Floreale”. Capitò poi che i Magazzini Liberty di Londra, specializzati in arte orientale, cominciassero a proporre al pubblico oggetti Art Nouveau, e così invalse l’uso di definire col nome dell’importatore inglese tutto quanto richiamasse quello stile, e in Italia la stringata definizione “Liberty” sostituì ben presto quella iniziale. Il fatto che il termine anglosassone richiami subito alla mente il concetto di libertà, all’epoca sempre poco concessa, contribuì alle definizioni in uso nell’impero Austro-Ungarico (Sezession a Vienna e Secese a Praga), per ribadire lo strappo con gli ingessati stili precedenti, intesi come espressioni del regime dominante. In realtà, e questo è il secondo malinteso, l’Art Nouveau imponeva nuove e strette correlazioni tra forma e decorazione, tra utilizzo e fascino, tra progetto e natura, tra sintesi e immaginazione, costringendo artisti e costruttori a convivere nei volubili canoni del modernismo, e in buona sostanza dando origine a un metodo progettuale oggi noto come industrial design.
Qualora fosse di vostro interesse, sappiate che i maggiori esempi di architettura Liberty in Italia si trovano a Torino, ma è ben poca cosa in confronto a quanto possono sfoggiare Budapest, Praga, Riga e Glasgow.
Per tornare ai quilt, anche le artiste di Patchwork Idea si sono dovute misurare con canoni estetici delicati e leggeri, proprio come lo sono i fiori, però evitando di cadere nel lezioso o nello stucchevole. Nel breve filmato sottostante potrete verificare com’è stata declinata l’Art Nouveau mediante il patchwork, e valutare quei soggetti che hanno sicuramente lasciato un segno nell’immaginario di chi ha visitato la mostra. Lascio a voi giudicare se l’esperimento è riuscito, ovvero quello di guardare al passato per immaginare un futuro. Io, come ho già scritto, ne ho ricevuto un’impressione che mi ha risollevato lo spirito, e di questi tempi non è cosa da poco, credetemi.
Nota tecnica. Purtroppo, per motivi logistici dovuti al restauro della sede storica di Ca’ da Noal, l’esposizione è stata costretta in un’unica sala piuttosto buia e opprimente, oserei dire claustrale, del Museo Santa Caterina, con limitati spazi a disposizione, e purtroppo in quelle condizioni la piccola fotocamera che ci siamo portati dietro ha denunciato tutti i suoi limiti.
Cercheremo di far meglio l’anno prossimo.
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