Pur non essendo Stephen King tra i miei autori preferiti, devo ammettere che a distanza di quarant’anni il titolo di quel famoso libro è ancora intrigante.
A volte ritornano dicevo, e con gli stessi effetti terrificanti evocati in quelle pagine, ecco che ritornano i miei articoli sul blog.
Quasi superati i deleteri effetti di una banale quanto inopportuna frattura del radio, ho potuto finalmente riprendere in mano (anche concretamente) alcuni post che avevo lasciato in sospeso.
Ecco allora che per questo mio riaffiorare al mondo del visibile ho deliberatamente scelto di scioccarvi con qualcosa di estremo, delle opere che talvolta sfiorano la provocazione, che offrono più domande che risposte, e che sembrano pensate per scatenare opinioni contrastanti.
L’occasione mi è stata offerta dalla decima edizione del concorso internazionale di arte tessile contemporanea “Premio Valcellina”.
Già la definizione “arte contemporanea” dovrebbe dissuadere chi ama il patchwork classico dal proseguire nell’esplorazione di questo articolo, perciò da qua in poi vi inoltrerete a vostro rischio e pericolo.
Il tutto si svolgeva nella cittadina di Maniago, in Valcellina appunto, ai piedi delle Prealpi Carniche.
Pur non essendo una valle ridente, stile Dolomiti intendo, la Valcellina ha un suo fascino, magari un po’ brusco, quello della montagna che non è amica o nemica, bensì severa testimone, un elemento da trattare con rispetto e attenzione. Chi invece la affrontò armato di stolida supponenza finì con lo scatenare la ribellione dell’elemento naturale, rendendosi responsabile della più grande tragedia che quella valle ricordi: il Vajont.
Maniago conta circa undicimila abitanti, ed è famosa per le sue coltellerie, essendo da secoli i loro “battiferro” esperti nella forgiature di tutti i tipi di lame, dagli attrezzi agricoli alle spade per l’esercito della Serenissima.
Ma allora perché una mostra tessile a Maniago?
Potrei supporre che la risposta stia nella magnifica sede messa a disposizione, il Palazzo d’Attimis, una residenza signorile del XVI secolo in grado di offrire una prospettiva temporale diversa alle opere esposte, ovvero ciò che fu e ancora è ospita ciò che è e forse sarà, come un nonno austero che si diverte alle facezie di un nipotino.
Appena entrati il colpo d’occhio è notevole.
Venti le opere esposte, ovviamente non tutte indimenticabili, però più di qualcuna ha lasciato un segno sull’irregolare superficie della mia immaginazione.
Il primo, l’avrete già notato nell’immagine sopra, è un patchwork di carta.
Si tratta di un’istantanea che oggi è facile catturare con uno qualsiasi dei giocattoli multimediali che ingombrano tasche e borsette. Ciò che la rende interessante, oltre alla particolare tecnica di assemblaggio, è l’apparente casualità di tutti gli attori della rappresentazione. Non c’è trama, non c’è disegno, non c’è messaggio, solamente un istante unico e irripetibile di un caos enigmatico.
Va da sè che per apprezzarne il colori l’opera dev’essere retroilluminata, come se si trattasse di una preziosa vetrata.
Esistono, e sono la maggior parte, opere che hanno un fronte (bello) e un retro (brutto). Ci sono anche opere “double face“, più difficili, e perciò più rare. Questa però è la prima volta che incontro un’opera tessile a tre facce, il fronte, il retro, e la proiezione.
In più, variando la luce, la sua intensità e la sua direzione, l’opera risulta dinamica, sempre in divenire, e suppongo che l’artista abbia voluto realizzare un’ardita metafora della nostra esistenza, nella quale ogni aspetto del nostro essere, così complesso e variegato, ricade sempre su ciò che lo circonda, anche con una semplice ombra.
Nonostante tutto, i libri, i giornali, il cinema, la televisione, internet, o magari proprio per eccesso di informazione, l’Estremo Oriente resta per i più un rebus, con tradizioni e mentalità più che esotiche, criptiche.
Eppure di qua e di là le grandi domande sono le stesse, chi siamo, perché siamo, dove andiamo?
Osservate l’opera di questa artista taiwanese, sembra proprio una scalinata, e il titolo “Where are You?” (Dove sei?) è la semplice domanda che l’artista rivolge idealmente alla nonna da poco deceduta. La scalinata inizia da un punto indeterminato, ciò che eravamo prima di nascere, sparisce alla nostra vista in un altro punto indeterminato, ciò che saremo dopo la morte.
I medium di questo messaggio sono della cenere di incenso, sempre presente nelle cerimonie funerarie orientali, e dei fiori di loto, simbolo della vita, della purezza e dell’illuminazione.
Semplicità e bellezza. Dovevate essere lì per apprezzare quest’opera, in quanto la fotografia non riesce a rendere l’effetto cangiante e tutte le sfumature di colore di una tessitura raffinata.
La trama non serratissima e una voluta irregolarità dell’intreccio davano una sensazione di morbidezza, la stessa della delle piume di un uccello, e appunto a quelle l’artista dichiara di essersi ispirata.
Due opere, stessa tecnica, materiali diversi. Uno è realizzato con filati naturali, mentre l’altro con filati sintetici. Il ricamo è stato eseguito, indovinate un po’, su un foglio di carta.
Il fatto che l’opera realizzata con filati sintetici appiaia più vivace è abbastanza emblematico. Ciò che non ricordiamo (più) potrebbe svanire, sommerso in intensità e impatto da ciò che fa della novità la sua cifra, con una bellezza giovane, ammiccante, ma anche artificiale ed effimera.
Noterete che, accanto ai punti ricamati, l’artista ha tracciato con alcuni gessetti colorati tante lineette che si avvicinano per tinta ai punti stessi. Per come la vedo io, i punti sono associati alla realtà, mentre i tratti colorati rappresentano l’impronta che la realtà lascia nella nostra memoria.
La memoria per Sofia Bonini è invece qualcosa di solido, qualcosa che si può maneggiare, tagliare, cucire, colorare, odorare. Tanti oggetti diversi, stoffe, strofinacci, bottoni formano, parole dell’artista, un archivio della quotidianità, una moltitudine di materiali che ha accompagnato la vita di tre generazioni.
Invece di buttare, tutto è stato ripreso, rivisitato, ricostruito in forme nuove e inattese, e poi tinto con elementi “di famiglia”, curcuma, caffè, cannella, tè, e altro ancora, per fare in modo che, come la famosa madeleine di Proust, i loro profumi diventino i più sinceri testimoni del tempo che fu.
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