Mi ricordo, sì, io mi ricordo.
Ma cosa mi ricordo? E perché ho iniziato questo post con delle considerazioni di carattere personale quando invece dovrei illustrarvi quanto ho visto alla mostra? La risposta è molto semplice: perché non posso farne a meno. La scintilla che ha riattizzato le braci che sembravano sepolte sotto la cenere degli anni è stato un’opera intitolata “Wish you were here” di Angela Madden. Questo quilt è stato un salto indietro fino al 2002, Quilt Expo di Barcelona, la prima mostra internazionale che ebbi la fortuna di visitare.
Mi ricordo, sì, io mi ricordo. Fu uno shock. Prima di allora certi lavori li avevo visti solamente in fotografia su qualche rara rivista, ma vedere una tale messe di opere, dal vero, da vicino, fu una sensazione indescrivibile, fate voi uno sforzo di fantasia per mettervi nei miei panni di allora. Finalmente potevo osservare le tecniche, i punti, i trucchi, gli effetti, e anche i difetti di quilt che per quel che mi riguardava, sembravano provenire da un altro pianeta. Per qualche strano meccanismo psicologico, invece di cadere in depressione dopo aver realizzato quanto scarse fossero all’epoca le mie abilità, provai un inaspettato (per me) impulso di emulazione, pur avendo coscienza che mai avrei raggiunto tali livelli. Passarono gli anni e ne passò di stoffa sotto le mie dita, arrivò anche l’estate del 2008, e con lei la mia prima visita a “The Festival of Quilts” di Birmingham. Mi ricordo, sì, io mi ricordo. Una bella esperienza, nonostante Birmingham. Arrivavo da un’estate di 32 gradi solari per scendere in un’autunno di pioggia sferzante e irridente. Del cibo poi meglio non parlarne, o era introvabile o era poco invitante. Però la mostra…. wow! Una sola parola per definirla: sconfinata. Infatti sembrava non avere confini dimensionali, ma anche quelli qualitativi erano assai labili. Quando si pensava di aver visto il lavoro migliore della mostra, si girava l’angolo e se ne scopriva un’altro ancor più bello. Non a caso proprio all’ultimo, mezz’ora prima della chiusura, scoprii colei che a tutt’oggi è una delle mie artiste preferite: Irina Voronina. Girando per i meandri della mostra ritornò prepotentemente a galla un senso di inadeguatezza, una realistica considerazione dei miei limiti, e mai avrei pensato all’epoca che solamente tre anni dopo su quei pannelli scuri sarebbe stato esposto anche un mio quilt. Anche quest’anno non ho voluto mancare a questo appuntamento, anche se non ci sarebbero più state l’emozione e il timore del confronto che mi resero eccitante oltre ogni misura quell’edizione del 2011. A questo punto direi che è il caso di raccontarvi qualcosa dell’edizione 2014 del Festival of Quilts.
Prima il dovere e poi il piacere, nel senso che per dovere di informazione per prima cosa vi mostrerò i lavori che sono stati premiati, e solamente poi quelli che mi hanno colpito in modo particolare, in buona sostanza quelli che mi sono piaciuti particolarmente, anche più di quelli che hanno vinto. Pur non possedendo titoli accademici in campo artistico e nemmeno un diploma di quilter di lungo corso, non ho potuto fare a meno di provare delle perplessità nei riguardi di alcune scelte della giuria. Fosse solamente una mia opinione, pazienza, si sa che i miei gusti non sempre rispettano i canoni, ma ho avuto modo di constatare che pure altre quilter non hanno condiviso alcune scelte estetiche della giuria. Un esempio per tutti: un quilt tradizionale non dovrebbe solamente trasporre dei motivi tradizionali, ma dovrebbe essere realizzato con tecniche tradizionali, e tra queste non mi sembra che si possa annoverare la quiltatura a macchina (magari long-arm) con fili in rayon e poliestere. E quando si parla del diavolo… ecco che spunta la coda.
Primo premio della categoria Traditional Quilts
“The Good Life” di Philippa Naylor
Questa grande opera è stata giudicata la “perfezione personificata”, per l’armonia dei singoli elementi, per la cura del dettaglio, per la dinamica del risultato finale, e quiltato in maniera superba, tecnica per la quale del resto Philippa Naylor è già famosa (però a macchina).
Dal molto grande al molto piccolo, cioè ai quilt in miniatura, veri gioielli di pazienza e abilità.
Primo premio della categoria Miniature Quilts “A Hundred Acres” di Roberta Le Poidevin
Di grande fascino l’effetto pittorico di questo quilt, par di osservare da una piccola finestra un orizzonte lontanissimo, e un cielo plumbeo che sta per lasciar cadere su un terreno già zuppo tutta la pioggia che a stento trattiene.
Domani vedremo, sicuramente. Ma cosa vedremo? Date un po’ un’occhiata a cosa si è capaci di fare in giovanissima età. Certo che non basta solamente l’entusiasmo, non basta la fantasia, ci vuole anche una guida attenta, ma qui emerge anche l’estro artistico, il desiderio di comunicare con mezzi che cercano di superare i comprensibili limiti anagrafici.
Primo premio della categoria Young Quilter / Young Embroiderer dai 5 agli 8 anni “Lek og Moro” di Anine Stener
Altre immagini di opere che hanno vinto nella categoria Young Quilter per le fascie di età superiori le potete trovare sul mio album di Flickr, e sono Danai-Rae Matthews, Millie Ayers, ‘De Klimtoren’ Lommel, Rebecca Palmer Originals Sewing Group.
E già che stiamo parlando di principianti, non posso non osservare che molte opere nella categoria “My First Quilt” dovrebbero far riflettere chi suppone di essere abile solamente perché sono anni che si diletta con il patchwork.
Primo premio della categoria My First Quilt “My Pride and Joy“di Jill Johnston
The Quilters’ Guild è l’associazione inglese, anzi loro precisano delle Isole Britanniche, che ha cura di conservare il patrimonio dei vecchi quilt (in mostra nel museo di York) e che promuove, grazie a 18 comitati regionali, il patchwork mediante corsi e mostre locali, con particolare attenzione verso la scoperta e la crescita di nuovi talenti. Anche quest’anno una categoria dei concorsi era riservata alle loro opere.
Primo premio della categoria The Quilters’ Guild Challenge “Tulip Time” di Yvonne Brown
Purtroppo la mia fotografia non riesce a rendere gli effetti di lucentezza e semitrasparenza della seta (tinta e dipinta a mano) utilizzata per questa delicata opera. Non mi stancherò mai di ripetere che per apprezzare al meglio un quilt bisogna osservarlo con i propri occhi, e non attraverso il freddo sensore di una macchina fotografica.
Come ho già detto più volte, i lavori di gruppo mi stupiscono sempre, e non per qualche particolare aspetto estetico, ma proprio per la loro peculiarità, quella cioè di essere il risultato di una fattiva collaborazione. A causa di cocenti disillusioni e, lo ammetto, di punti di vista spesso inconciliabili, alla parola “gruppo” associo sempre il concetto “baruffa”, e perciò ogni opera a più mani ben riuscita ha, per me, probabilmente solo per me, del miracoloso.
Primo premio della categoria Group Quilt “Beach Huts” di Tanglewood Textiles
Mi è già capitato di notare che i lavori di gruppo delle quilter inglesi sono spesso allegri, se non addirittura umoristici, il che non può fare altro che bene, aiuta lo spirito e, fatto non secondario, evita di prendersi troppo sul serio.
Procediamo con ordine, il mio “ordine”, ovvero di palo in frasca, e andiamo sul difficile. Il patchwork da qualche decennio ha smesso di essere un semplice (per modo di dire) assieme di pezze, ma si è aperto a nuove tecniche espressive, nuovi materiali, nuove strutture. Non tutti i sentieri che sono stati imboccati hanno portato a una vetta, ma se oggi possiamo ammirare certe opere che possono a buon titolo essere definite “arte” lo dobbiamo al coraggio di chi, come s’usa dire, ha lasciato la strada vecchia per la nuova.
Primo premio per la categoria Contemporary Quilts “Eloquence and Integrity” di Ruth Parker
Non chiedetemi di un’interpretazione per quest’opera, che tra l’altro è double face, però va detto che l’effetto è notevole, pur non cercandolo affatto, anzi quasi nascondendosi dietro a colori mai accesi, un understatement cromatico e compositivo di grande pregio.
Discorso simile per un’altra categoria difficile, la Art Quilts. Tutto sta nel capirsi: cos’è arte e che cos’è un quilt? Se per l’arte il discorso sarebbe estremamente lungo, avendo questa dei confini mutevoli che dipendono dalla sensibilità personale e da quella generale dell’epoca, per il quilt mi sento di affermare che certe caratteristiche dovrebbero essere mantenute, ovviamente con le evoluzioni del caso. Pur volendo sfuggire alla tradizionale definizione che possiamo trovare su qualsiasi dizionario anglosassone “A bed cover with stitched designs that is made of two layers of cloth filled with wool, cotton, or soft feather” e cioè un copriletto con disegni cuciti (trapuntati) e composto da due strati imbottito con lana cotone o morbide piume, ritengo che la presenza di questi tre essenziali elementi dovrebbe essere mantenuta, seppur nelle loro varianti che l’estro dell’artista si ingegna a scovare. Ho usato apposta il verbo “ingegnarsi”, per sottolineare appunto la fatica e la cura per la realizzazione pratica di un’idea astratta, l’ingegno appunto, aspetto che non dovrebbe mai essere sottovalutato in favore esclusivo del “genio”, la creatività pura. Come diceva bene T.A. Edison, per il successo di un’idea ci vuole l’ispirazione, ma per il 99% è traspirazione, ovvero duro lavoro. Troppo spesso mi è capitato di notare che vengono definiti “quilt” delle opere che seppur pregevolissime tradiscono una noncuranza tecnica, per me, sempre esclusivamente per me, imperdonabile.
Primo premio della categoria Art Quilts “Sunrise, Moonrise” di Mercè González (Desedamas)
In quest’opera realizzata con più strati sovrapposti di pregiata organza di seta dipinta a mano, l’artista ha voluto rappresentare la luce solare e quella lunare, contrapposte ma anche complementari. Si tratta di un lavoro di notevole impatto estetico ma, non so voi, a me è difficile definirlo un quilt, mancando la benché minima traccia di un’imbottitura intermedia e di una quiltatura degna di questo nome. Gusti personali a parte, per quest’opera di grandi aspirazioni espressive troverei più adeguata la definizione di arte tessile.
Quando si lavora in coppia può capitare di avere gusti affini e andare d’amore e d’accordo oppure, al contario, di pensarla in maniera diametralmente opposta e litigare furiosamente. Non pensate che i risultati della prima condizione siano superiori alla seconda, anzi capita talvolta che dai contrasti nascano delle miscele tanto sorprendenti quanto riuscite. Se poi si è pure parenti tutto si complica, e si risolve, come nel patchwork.
Primo premio della categoria Two Person Quilts “Dear Mrs Morcom” di Mark Mann & Bridget Mann
E dato che c’è il 3D al cinema, poteva mancare qualcosa di simile anche nel patchwork? Ovviamente no, ed ecco la categoria Quilt Creations, dove ci si può sbizzarrire con la fantasia per creare oggetti “patchwork” di stoffa o rivestiti di stoffa.
Primo premio della categoria Quilt Creations Clock di Kate Crossley
La categoria che permette di dare all’artista il meglio di sé è quella dei Pictorial Quilts, sempre di grande impatto sul pubblico. Non si pensi che sia facile realizzare un’opera di questo genere, infatti può capitare di scivolare nello stucchevole o mancare di originalità ricalcando sentieri già ampiamente battuti. Si tratta di dipingere con la stoffa ma, come per la pittura non bastano colori e pennelli per realizzare un bel quadro, qui non basta un bel soggetto o la minuzia dei dettagli per ottenere un risultato eccellente, bisogna veramente possedere un estro fuori dal comune e una tecnica in grado di darne una visibile dimostrazione.
Primo premio della categoria Pictorial Quilts “Poor and Rich” di Janneke de Vries-Bodzinga
Non è la prima volta che quest’artista viene premiata, e non solamente a Birmingham. Pur mantendosi fedele al suo tema preferito, ovvero l’Africa e la sua gente, Janneke de Vries-Bodzinga riesce a stupire per l’originalità delle sue composizioni, sempre di grande respiro spaziale. Altri immagini delle sue opere le potete trovare su questo blog nei post che riguardano le edizioni precedenti del festival.
Con ciò suppongo di aver adempiuto ai miei obblighi, e quindi di poter iniziare l’illustrazione delle altre opere che, secondo il mio opinabile giudizio, valevano la fatica di arrivare nelle Midlands, dopo aver passato un’esperienza di viaggio irripetibile, nel senso che non vorrei ripeterla mai più. Quest’anno infatti, invece di partire direttamente da un aeroporto di casa, colsi l’occasione di un’escursione in Boemia per una visita a siti che agli inizi di Aprile sono ancora chiusi. Tutto ok a Český Krumlov e a Praga, e anzi pareva che, contrariamente alla nuvola di Fantozzi, fossimo perseguitati da un singolare squarcio di sereno che ci garantiva l’unica zona di bel tempo in tutta l’Europa Centrale (e anche le notizie da casa raccontavano di un tempo pessimo). I guai, se così possiamo chiamarli, avvenirono al momento di lasciare Praga per Nottingham. Chi viaggia in aereo sa bene che bisogna presentarsi al check-in almeno 40 minuti prima della chiusura del gate, e noi, per sicurezza, arrivammo in aeroporto un’ora e mezza prima. Massimo fu il nostro sconforto quando, raggiunti i due banchi del check-in, trovammo una fila di più di un centinaio di partenti. Pazienza, tanto c’è tempo. Però, di pazienza in pazienza, la fila si muoveva lentissima e intanto il tempo passava. Finalmente dopo quasi un’ora riuscimmo a superare quel primo ostacolo. Poi venne il turno del controllo dei documenti, altra fila, con la complicazione di famiglie con bambini per ognuno dei quali bisognava verificare l’identità, sia per via documentale che domandando al bimbo se era sua madre quella che lo teneva in braccio. Arrivato il nostro turno scoprimmo che per le carte di identità italiane c’è tutta una procedura, un insieme di dati da registrare e verificare in un loro database. Alla richiesta dell’agente del perché non avessi un passaporto risposi che non mi andava di spendere ben centoventi Euro per un documento che mi sarebbe inutile in Europa (e che a loro costa solamente ventotto Euro). Altra mezz’ora persa e ultima chiamata del volo. Superato anche l’ostacolo documenti ci toccò fare lo slalom tra persone con trolley al seguito per giungere senza più fiato al controllo di sicurezza presso al gate (lontanissimo, si capisce). Documenti, svuotamento tasche, svuotamento zaino e tutto il resto, per riuscire finalmente a salire sul nostro aereo, lasciandoci cadere di peso sui primi posti trovati liberi (infischiandocene di qualsiasi eventuale prenotazione). Risultato: non fummo nemmeno gli ultimi a salire, e l’aereo lasciò Praga con più di mezz’ora di ritardo sull’orario previsto. Quindi, proponimento, la prossima volta vado in treno fino a Calais, attraverso la Manica alla vecchia maniera, e poi via in treno fino a Brum. C’è sicuramente chi mi potrebbe chiedere “ma chi te l’ha fatto a fare”, e per costoro io non ho una risposta sensata, se non quella che lì vado a cercare l’ispirazione e gli stimoli che a casa non riesco a trovare. A dir la verità ci sarebbe anche un altro motivo, ma non voglio anticiparvi nulla.
Lasciatemi iniziare con un’opera che avrebbe dovuto ricevere maggior attenzione. Si tratta di “Swinging Amsterdam” realizzata da Rita Dijkstra-Hesselink. Sarà per l’atmosfera di quella città che mi piaque moltissimo, sarà perché amo i luoghi inaccessibili alle automobili, sarà per l’idea originale di ribaltare riflesso e realtà, sarà perché mi vanno a genio le rappresentazioni fuori dal comune, sarà forse per tutte quelle altre sensazioni che non riesco a descrivere, ma mi va di fregiare quest’opera col titolo “la mia preferita”.
Da una visione quasi onirica di Amsterdam a una più realistica, ma non per questo meno interessante, di Köln (Colonia). A Greta Fitchett è capitato di osservare il Duomo di Colonia, forse scorgendolo dalla stazione ferroviaria riflesso su un una grande vetrata di un palazzo della Breslauer Platz, e lei non ha perso l’occasione di fissare su stoffa questo particolare punto di vista – “Cologne Cathedral Reflection”.
Sembra un incendio, ma il fuoco è molto lontano. Infatti a incendiare la città è la luce del Sole, ancora basso sull’orizzonte, che si riflette sulle finestre dei palazzi all’alba. “Awakening” appunto, di Prue Wheal.
Come non mi stancherò mai di far osservare, trovo che sia troppo facile realizzare un bel patchwork comprando del batik o altre stoffe di qualità. Ben altro valore ha un’opera composta da stoffe comuni, improbabili o, come da tradizione, recuperate dove capita, magari anche usate. Il lavoro sottostante è un perfetto esempio di recycling, e la dimostrazione che con un po’ d’occhio si può realizzare qualsiasi cosa, anche questo rustico paesaggio tipico dell’Essex e Suffolk, “Town and Country“, per il quale Sylvia Paul ha utilizzato gli avanzi di seta di uno stabilimento tessile di Sudbury. I like it!
Esotico questo paesaggio. Esotico? Certo, forse non per voi, ma per Abeer Al-Khammash che arriva dall’Arabia Saudita una nevicata è un evento alieno, remoto, quasi irreale. Non ho idea se si tratti della memoria di un’esperienza vissuta o la riproduzione di un’immagine suggestiva, il risultato è comunque notevole, come pure è apprezzabile l’utilizzo di materiali inusuali (forse guttaperca?) – “Snowing“.
Se il quilt precedente ci ha fatto già precipitare nel gelido inverno, cerchiamo di un po’ di risollevarci il morale con qualche momento più confortevole. Le quattro stagioni sono un motivo ricorrente nel patchwork, e qui possiamo vedere due interpretazioni completamente diverse di questo soggetto. La prima è di Cauldron, un gruppo di quattro quilter inglesi, le quali hanno interpretato lo stesso disegno ma visto in quattro differenti momenti dell’anno. – “Four Seasons“.
Questa è invece l’interpretazione delle quattro stagioni che ne dà Christine Heath. Suppongo che lei, più che descriverle, abbia cercato di spremerne le sensazioni che trasmettono, una rappresentazione informale, pur restando in uno schema predefinito, ripetitivo, proprio come il tempo, sempre uguale e sempre diverso. “Four Seasons“.
Difficile decidere se quest’opera di Heater Pratt sia un sogno oppure un’immagine ideale. Noi siamo abituati a considerare le piante come entità immobili, dall’esistenza lenta e monocorde, e appunto definiamo uno stato di attività quasi nulla con il verbo “vegetare”. Invece a quanto pare gli alberi sono come le persone, con la loro personalità, e come le persone gioiscono e soffrono, con la differenza rispetto a noi che loro ridono e piangono in silenzio. Quest’albero poi è speciale, i rigidi rami si mutano in morbide trecce o flessuosi tentacoli, e le foglie in cuori; le radici non affondano più nell’oscuro sottosuolo, bensì fluttuano libere nell’acqua, e pure quest’ultima muta, da strumentale vettore di sali nutritivi, a casa e sostegno di un albero in continuo divenire. – “Trees are People Too“.
Gialal al-Din Rumi fu un grande poeta persiano del XIII secolo (altre informazioni le potete trovare qui), e a Sandra Newton, ascoltando il canto degli uccelli sui rami di un albero vicino a casa sua, è venuto in mente uno dei celebri versi di questo poeta: “Cantare come cantano gli uccelli senza preoccuparsi di chi ascolta e di cosa pensi“. Magari lo stesso pensiero ci sfiora anche quando si immagina e poi si realizza un patchwork, con la ferma decisione di esporlo infischiandose (giustamente) di chi lo guarderà e di cosa penserà. Approvo, condivido e sottoscrivo. – “Songburst“.
Olwen Shears vorrebbe che tra le foglie di un suo grande cespuglio, al posto dei soliti uccellini, trovasse stabile dimora un gruppo di pappagallini gialli. Magari, ma lei non lo dice (o forse ancora non lo sa), preferirebbe che fosse quel cespuglio con lei al seguito a spostarsi a casa dei pappagallini, in terre e climi ben diversi dalle Isole Britanniche – “Tweet“.
“Through the Window…“, attraverso la finestra Janet McCallum vede questo pezzetto di prato, uno scorcio d’estate per un’estate che quest’anno non s’è fatta vedere. Accontentiamoci allora della fantasia e della memoria, magari con l’aiuto di queste margherite che sembrano uscire dal quadro.
Mi ricordo, sì, io mi ricordo, circa dieci anni fa, una primavera fantastica in Olanda. Ero lì per l’esposizione internazionale a Den Haag (L’Aia), e presi alloggio in un caratteristico Bed & Breakfast di Haarlem, una splendida cittadina. Oltre alla mostra, superba proprio come mi aspettavo, ricordo la visita ad Amsterdam, i musei, i canali, le biciclette, e tutta quanta l’atmosfera, unica. Anche i trasferimenti in treno non furono da meno, dato che accanto al finestrino sfilavano campi fioriti di tutti i colori, un patchwork vegetale inaspettato. Ma, come suppongo sia stato per Ethelda Ellis, ciò che mi colpì di più furono i giardini di Keukenhof, ed eravamo a maggio, proprio la stagione perfetta. Mai più visto uno spettacolo del genere! Ringrazio Ethelda Ellis per aver fatto riemergere il ricordo di una primavera a Keukenhof – “Lente in Keukenhof“, appunto.
Tre milioni e passa di abitanti, questa è l’attuale popolazione di Jeddah (Gedda). Si tratta perciò di una metropoli, moderna, turrita di grattacieli e di gru portuali, forse pure troppo se Elham Alsabban ha pensato bene di fuggire nella città vecchia per riportarci l’atmosfera di quella che per secoli fu la “città della spiaggia”. – “Old Jeddah“.
Eszter Bornemisza non ha bisogno di presentazioni. Le sue opere sfuggono a qualsiasi definizione, e ciò secondo me è un valore aggiunto. Per quel poco che ne capisco d’arte, non mi sembra lei si ispiri a uno stile pittorico contemporaneo, ma che anzi cerchi di lasciar trapelare le sue sensazioni per mezzo di contaminazioni e assemblaggi fuori dal comune, senza apparire mai né autoreferenziale e né approssimativa. Sotto questa rete di stoffa ha creato una città con semplici frammenti di quotidiani e qualche decorazione astratta. – “Urban Fragments“.
“Urban Fragments” – Dettaglio
C’è di tutto in questo libro patchwork realizzato dalle dodici quilter dell’associazione Better Together. Si sa che, a meno che non lo si faccia di mestiere, ogni quilt è un’avventura speciale, talvolta ardua ed estenuante, sempre irrinunciabile, e che solamente chi è vittima di una particolare vena di pazzia la può trovare anche divertente. Allora evviva le “Crazy Adventures“.
“Crazy Adventures“
Una cascata di triangoli multicolori di Janine Visser, un lavoro non solamente artistico ma anche un’originale composizione che è indice di buone competenze tecniche anche al di fuori del patchwork - “Triangle Trail“.
Non si sono fatte mancare niente Irene Harris e Susan Campbell per il loro “Beyond the Garden Wall“, nemmeno il tempo per curare i graziosi dettagli. Al di là del muro del giardino c’è tutto il mondo, e la bimba è incerta, curiosa e timorosa allo stesso tempo. Fin troppo piacevoli questi accostamenti cromatici e il soggetto che rimanda all’età dell’innocenza. Chissa se hanno mai visto il film “Oltre il giardino”…
“Beyond the Garden Wall” – Dettaglio
Questo lavoro intitolato “Fish at Sea” potrebbe a prima vista apparire banale, invece nasconde molti segreti. Innanzitutto Pam Stanier e Quilters’ Trading Post hanno creato il disegno dei pesci nel mare utilizzando un blocco geometrico che già da solo farebbe la sua bella figura, e poi hanno scelto sfumature di blu e di rosso, colori che è sempre difficile accordare. Ciò che inoltre è raro, e perciò anche prezioso, è il materiale usato: la stoffa Shwe Shwe (ma dove l’hanno scovata in Inghilterra?). Questo tipo particolare tipo di cotone arriva dal Sudafrica, anche se ha le sue antiche origini in India. Dapprima lo si trovava solamente del colore indaco, e oggi anche in altre tinte, con originali motivi stampati. Poche sono le aziende sudafricane che producono questa stoffa, utilizzata prevalentemente dalle donne xhosa per le loro variopinte vesti tradizionali. Un tempo il Shwe Shwe era pesantemente inamidato, un trattamento indispensabile perchè la preziosa stoffa doveva resistere ai lunghi viaggi per mare dall’India verso i porti di destinazione. Ancora oggi succede che col tempo e con l’uso questo cotone diventi sempre più morbido, e il suo unico difetto (o pregio a seconda dei gusti) è quello di perdere del colore durante il lavaggio, come il denim del resto, che piace ancor di più quand’è un po’ stinto.
Maríe-Josèphe Veteau ci rimanda magistralmente ai tempi del patchwork tradizionale, direi quasi leggendario, basato su un motivo tra i più noti, il Log Cabin. E direi che non poteva essere altrimenti dato che lei arriva dalla patria del patchwork europeo, la zona dell’Alto Reno, poco a sud dell’altrettanto leggendaria Val’ d’Argent – “Log Cabin Chevronné“
Il lavoro sottostante lo dedico a chi usa tagliare una bella pezza di batik, ci fa sopra degli scarabocchi, magari ispirandosi a qualche stile pittorico che ha fatto il suo tempo, la unisce a un’imbottitura leggera e a un backing di cotone, contorna quella specie di macchie di Rorschach con una quiltatura veloce a macchina, e poi suppone di aver fatto un bel lavoro. Ben cinque anni di lavoro sono occorsi ad Alison Garrett per questo suo “A Slow Quilt“, veramente crazy, il patchwork e anche lei, una pazzia realizzata con campioni di seta e velluto, interamente ricamata a mano. Osservando i vari blocchi si possono immaginare i giorni, i mesi, le stagioni, e le vicende avvenute in questo discreto lasso di tempo. Ce ne fosse ancora molta di questa meravigliosa pazzia nel mondo!
Ecco ora alcuni Quilt in miniatura, capolavori di una ventina ci centimetri circa. Mi stavo giusto chiedendo a chi mai poteva venire in mente di realizzare questi bouquet da sposa quando… ah, ecco… ora ho capito, è una giapponese! (anche se vive negli Stati Uniti). Kumiko Frydl porta sempre qualche suo piccolo gioiello a Birmingham, e anche questo lascia a bocca aperta. – “Bridal Bouquets“.
Scarpe, scarpe, e ancora scarpe. A Sarah Jane Dixon indubbiamente piacciono le scarpe. Non so se avete presente i magazzini Selfridges di Londra, in Oxford Street, ma lì, ammirando la nuova collezione di Vivenne Westwood, probabilmente lei è stata fulminata sulla strada di Damasco e ha trovato l’ispirazione per questa sua opera. – “A Girl Can’t Have Too Many Shoes“.
Quando in inverno il vento soffia feroce da nord-est, dal Mar d’Irlanda, la costa è flagellata dalle raffiche e dalle mareggiate. Sandra Goldsbrough ha cercato di far trasparire il gelo e la desolazione di quelle giornate invernali, un’immagine ben diversa da quella stereotipata della verde Irlanda che abbiamo in mente. – “Whenever a North East Wind Blows II“.
Il tema del concorso organizzato da EQA per il 2014 si intitola “Seasonal Garden“, ovvero le stagioni del giardino o qualcosa del genere. Sono dei piccoli lavori di trenta centimetri per lato mediante i quali ogni artista si esprime come meglio crede, sia come tecnica che come interpretazione del tema. Questo è il pannello realizzato dalle quilter italiane.
Un dettaglio
Questi invece sono i quilt che provengono dalla Spagna.
Un dettaglio
Ce ne sono altri da vedere sulla mia pagina Flickr dedicata questa edizione del Festival of Quilts.
I giriama sono un popolo che vive sulle coste del Kenya. In quei posti è cresciuta Hauda Ahmed, e si può ben crederle quando afferma di provare nostalgia, soprattutto per le celebrazioni festose dei matrimoni (e anche dei funerali). Per questo quilt, oltre alla stoffa ha utilizzato piccole perle, filati, piume, juta hessan, e bozzoli di seta! – “Giriama Village“.
Dal caldo africano al freddo della Sierra Nevada. Come spesso capita, dopo le prime giornate miti di primavera può arrivare un colpo di coda dell’inverno, un’ultima gelata alla quale devono resistere tutte quelle piantine che hanno peccato di eccessivo ottimismo. La loro audacia e la loro resistenza si basa unicamente sulla speranza che il freddo passi presto, la speranza in un futuro meno cupo, perchè domani è sempre un altro giorno. – Barbara Lynn Tubbe – “Hope“
Quest’opera di Paloma Vives è la dimostrazione pratica che non tutto il male viene per nuocere. Dopo aver stampato la fotografia di un cavallo si accorse che alcune cartucce d’inchiostro della stampante erano esaurite, in quanto l’immagine risultante era venuta fuori in tante sfumature di blu. Da quella stampa imperfetta è nato questo bel quilt che le ricorda il suo mare. – “Reflectin el Mediterrani“.
A un famoso quadro di Ligabue, “Testa di tigre”, si è ispirata Laura di Cera per questo quilt che non passa di sicuro inosservato. Certo che dev’essere stato difficile trovare delle stoffe in grado di rendere i colori accesi utilizzati da quel grande pittore naif. – “Tiger’s Head“.
Chi non è mai stato a Nord, molto a Nord, non può avere idea di come basso e cupo sia il cielo. Non state a credere troppo alle brochure delle agenzie di viaggio, a quelle fotografie col sole che illumina un paesaggio terso e ai cieli sgombri di nuvole, non è quasi mai così, nemmeno d’estate. Eppure il sole c’è, sempre, e di giorno non smette mai di premere sulle nubi per arrivare, magari debole e stanco, fino alla sua gente, e per questo motivo gli abitanti del profondo Nord gli sono grati, anche se raramente hanno l’occasione di vederlo. - Marja Matiisen – “Sun-A-Round“.
Badate, per questo lavoro Marlene Cohen non ha usato la tecnica “confetti”, sarebbe stato troppo facile. Sono proprio foglioline di stoffa quelle che lei ha impiegato per comporre il patchwork “Autumn“. So che, sempre su questa falsariga, lei ne ha realizzato un altro intitolato “Spring”. Nell’ipotesi che volesse completare l’anno, sarebbe interessante scoprire la sua rappresentazione di “Winter”.
Chilometri di filo devono essere serviti a Lea McComas per “dipingere” questo scorcio di vita di due ragazzi turchi. Decine di migliaia di chilometri la separano da quel mondo, come pure da quella cultura, eppure lei è riuscita a cogliere lo spirito di due giovani che si danno da fare per aiutare la famiglia, i quali purtroppo sono ormai di una specie in estinzione dalle nostre parti. -“Turkish Bread Boys“.
Ognuno vive l’attesa a suo modo, e in questi banner di Irma Markus Gouda si possono, più che intuire, immaginare le differenze di comportamento. Interessante la sovrapposizione dei soggetti che volutamente ignora la prospettiva, schiacciandola come se fosse stato utilizzato un potente teleobiettivo con un campo di messa a fuoco ridottissimo, in controluce, sfocando e “bruciando” in questo modo il secondo piano. – “Waiting for the Parade“.
L’organizzazione SAQA ha organizzato una galleria intitolata “People and Portraits”, dedicata alle emozioni umane manifestate dal volto, dal corpo, dall’azione e dall’interazione. I lavori esposti erano circa una ventina, e questo di Yoshiko Kurihara era uno tra i più originali. – “A Winter Story“.
Chissà come mai la scozzese Sheena Norquay ha pensato a un ingorgo o a un punto morto per questa sua opera. Realizzato con campioni di stoffa e raso, non dà l’impressione di affollamento, e nemmeno di un blocco della creatività, tutt’altro. – “Gridlocked“.
Kausar Mitha ha combinato il patchwork con l’origami, utilizzando esclusivamente cotone denim indaco, ooportunamente scolorato. Il tradizionale blocco Somerset Star si è prestato benissimo a questo esperimento. Scommessa vinta. – “Indigo Stars“.
Un domani luminoso per Kazue Iwahashi, uno splendente oggi per questa opera, e una serie di infiniti ieri per realizzarla così bene, con tutti quegli appliqué ispirati a un campo di lavanda, ovviamente cuciti a mano. Bella anche la scelta di utilizzare una stoffa con una sfumatura chiara al centro, come l’inizio di un’alba che sorge all’orizzone – “The Brightness – Towards Tomorrow“.
Già nel 1615 a Dungeness Point, sulla costa meridionale del Kent, venne installata una rudimentale una segnalazione luminosa. A causa dell’avanzamento della costa verso il mare il faro dovette essere abbattuto e ricostruito più volte, l’ultima volta nel 1961. Jane Rogers si rammarica della soppressione dei vecchi fari in favore delle nuove tecnologie, perciò ha voluto dedicare questo suo patchwork al faro di Dungeness e a tutti i fari che purtroppo non fendono più il buio con il loro messaggio luminoso – “Lenses and Light“.
“Blue As The Turquoise Night of Neyshabur” è la composizione musicale che ha dato il “la” a Pia Puonti per questa sua opera, il blu appunto, ma anche il turchese, quello delle pietre preziose, le turchesi persiane appunto, che si estraggono da quelle parti – “Neyshabur“.
Si potrebbe dire “dulcis in fundo“, ma purtroppo non si può dire, perché dopo tante meraviglie ora tocca a un lavoro che di sicuro non è all’altezza di quelli precedenti. Però, dopo tanta fatica, per andare, per fotografare, per commentare, un piccolo premio me lo merito, e allora mi permetto inserire ciò che ho voluto esporre di mio al concorso, ovviamente con speranze di un riconoscimento pari a zero (se non sottozero). Però già il fatto che tante persone lo abbiano visto, lo abbiano fotografato, e persino postato in rete, è per me motivo di grande soddisfazione. Che ci volete fare, per quanto mi sforzi, la vanità è sempre in agguato. Si tratta della riproduzione esatta di un antico mosaico presente nella basilica di Aquileia, e quando dico esatta intendo che il mosaico è stato fotografato e misurato per rispettare le proporzioni, i colori, le dimensioni e la posizione di ogni singola tessera. Se non ci credete, andate e vedete.
Ecco, questa è la prova che c’ero anch’io. Ciaooooo
Puff, puff, finalmente siamo giunti quasi al termine di questo tour de force. Due sole cose ancor, la prima è che le immagini di tutti i lavori delle quilter italiane in concorso le trovate qui, la seconda è che altre fotografie dei quilt che ho visto a Birmingham le trovate qui. Come ogni volta mi trovo nella condizione di dover tirare delle somme, giusto qualche considerazione finale, e per l’ennesima volta ribadisco che osservare un quilt dal vivo è tutt’altra cosa che vederlo in fotografia, oltre al fatto che quelli che ho inserito nel post costituiscono solamente una minima frazione di quanto era esposto. A peggiorare le cose ci si mette pure il mio gusto personale, e per quanto l’obbiettività sia auspicabile, giocoforza capita di fotografare le opere che lasciano un segno, mentre altre, magari altrettanto pregevoli, sfuggono e non si fanno catturare alla prima occhiata. Tra i miei propositi per le edizioni future (oltre a quello di arrivarci in treno) c’è l’intenzione di dedicare due giorni alla mostra, per vedere, riflettere, e rivedere il giorno dopo. Comunque il concetto che intendo trasmettere è che, con giusto un minimo di organizzazione, arrivare qui, a Birmingham è relativamente semplice e neppure troppo costoso, dato che la mole di opere esposte giustifica ampiamente il viaggio fino alle Midlands. Se il prossimo anno vi venisse la voglia di verificare con i vostri occhi se quanto scrivo è vero, non avete che da mettervi in contatto con me, e vi darò tutte le informazioni pratiche del caso (viaggi, spostamenti, alberghi, ecc.). Ormai ho una certa pratica. Lasciatemi spendere una parola sull’organizzazione del festival, ma una sola: perfetta. Uno, circa diecimila ingressi al giorno, eppure gli spazi sono così ampi che mai capita di chiedere permesso per passare. Due, la parte commerciale, estesa e ben fornita, è comunque adeguatamente separata dalla parte espositiva dei concorsi. Tre, pochissime sono le opere che non possono essere fotografate. Quattro, più di mille lavori in concorso, mille lavori da staccare, imballare (con cura), e spedire. Il Festival chiudeva domenica sera, e il mio lavoro era casa già giovedì mattina. Mi ricordo, sì, io mi ricordo, a Parma… lasciamo perdere che è meglio. C’è ancora qualcos’altro che ricordo, ma si perde abbastanza indietro nel tempo, ai giorni delle mie prime esperienze con il patchwork. Mi ricordo che c’erano le coperte, tante coperte, piccole, grandi, enormi, all’epoca per me tutte meravigliose, con la loro esatta composizione geometrica e la loro paziente quiltatura manuale. Panta rei, tutto scorre, e oggi la maggior parte dei lavori sono dei quadri, espressionisti, impressionisti, astratti, futuribili, fino ad arrivare agli exploit temerari. Sarà un bene, sarà un male, e chi lo sa. Da un verso è giusto che il patchwork superi la sua immagine di hobby femminile, perda l’obbligo di avere una qualche utilità pratica, smetta gli usati panni di famiglia e abbandoni le pareti domestiche, e diventi gioia di esprimersi liberamente , a prescindere dalla cultura, dalle tradizioni, dai materiali, dai gusti e, perchè no, anche dal genere. Per contro c’è il rischio che diventi una corsa verso l’effetto speciale, il ballon d’essai, lo stupefacente, l’artificio, l’effimero, in, passatemi il temine, fuffa. Come di dice in questi casi: ai posteri l’ardua sentenza. Intanto prendiamo quel che c’è da prendere, perché di cose belle ce ne sono da vedere, e conto di ritornare ancora al Festival of Quilts, per un bel bagno di umiltà in primis, e per avere la conferma che il patchwork è in salute, anzi cresce e si fa scoprire anche da chi di pezze, pattern, fili, appliqué, non ne supponeva nemmeno l’esistenza. Fidatevi, in Europa ci sono altre mostre che espongono opere altrettanto belle, in ambientazioni anche più caratteristiche, ma vederne così tante tutte assieme è un’esperienza favolosa. Nonostante Birmingham.
P.S.
Per chi non l’avesse immediatamente notato, voglio precisare che l’incipit di questo post, una frase poi diventata una sorta di refrain, è una citazione, la parte del titolo di un film di Anna Maria Tatò “Marcello Mastroianni – Mi ricordo, sì, io mi ricordo“, girato durante le riprese del suo ultimo film “Viaggio all’inizio del mondo”. Mi pareva giusto precisarlo.
“https://www.lastoffagiusta.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/04/
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