So già cosa state pensando, vi aspettate un’altra sviolinata che illustra quant’è bella Praga e che ne decanta tutte le piacevolezze, le sensazioni, le emozioni che fa provare.
E invece no. A questo punto penso ormai di aver detto abbastanza (vedi qui, qui, qui, qui, e anche qui), perciò non saprei cosa fare di più per farvela visitare se non prendervi su di peso e portarvi lì. Perciò stavolta mi limiterò (per modo di dire) a illustrare gli aspetti del Prague Patchwork Meeting 2013.
Per inciso, quest’anno ho percorso un tragitto diverso. Prima di recarmi a Praga ho fatto un giretto nella Boemia meridionale, e neanche sto a dirvi quant’è stata interessante quella escursione, perché mi ci vorrebbero almeno un paio di post. Qualche immagine la potrete trovare in futuro sul sito my3place.wordpress.com e già ora nelle topinke di questo blog.
Giusto per darvi un’idea, ecco qua sotto un mosaico dell’originalissima stazione ferroviaria di České Budějovice, edificio rimasto quasi identico a quando è stata inaugurato nel 1908 (i treni no per fortuna). La fotografia è stata scattata il giorno della partenza per Praga. Il mosaico è molto più recente e vi sono rappresentati i luoghi più interessanti dalla città vecchia.
Diario minimo: arrivo a Praga, come previsto, giretto in città, come previsto, abbuffata in birreria, come previsto, alberghetto tranquillo, come previsto, prima colazione formato magnum, come previsto, giretto con i tram, come previsto, ore 14:30 arrivo alla mostra, primo imprevisto. Davanti all‘unico ingresso, una stretta porta di alluminio e vetro, si snoda una lunga fila in attesa. Siamo all’aperto, e la temperatura non è delle più miti, saranno al massimo 1 o 2 gradi. Certo, potrebbe andare peggio, potrebbe piovere, ma dopo più di mezz’ora di attesa, mezzo passettino alla volta, il pensiero non mi è di grande consolazione.
Finalmente è il mio turno, e capisco.
Tre giovani di buona volontà, per ogni singola persona devono comunicare i prezzi dei vari biglietti, incassare e dare il resto, fornire la documentazione, allacciare il cinturino di ingresso, il tutto su un unico tavolino attorno al quale si incrociano, voci, biglietti, braccia, soldi, borse, cataloghi, ecc. Fanno quello che possono, ma si nota lontano un miglio che non sono del mestiere, si affannano, e da loro non si possono pretendere miracoli. Assoluzione volante.
Però per la prossima edizione sarebbe buona cosa prevedere una prevendita via internet, o almeno una procedura più snella ed efficiente. Va bene che siamo nati per soffrire, e che il patchwork è un supplemento di sofferenza, un castigo divino, ma farci aspettare tanto tempo all’aperto è quasi degno del Marchese de Sade.
Ora che ho levato questo sassolino dalla mia scarpa posso cominciare a raccontarvi la mostra, e quindi: alegria!
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Come gli altri anni si viene accolti da un “giardino” di opere a tema. Stavolta è toccato alla seta.
Già dall’immagine soprastante si può constatare la varietà di interpretazione artistica delle quilter ceche, per un materiale di grande effetto ma di non semplice utilizzo.
Ecco solamente alcuni pannelli, tanto per darvi un’idea. Nel post, cliccando sull’immagine, questa viene visualizzata in formato più grande su Flickr.
Dettaglio di un lavoro che avrei intitolato “millefoglie”, come la pasta.
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Un altro lavoro di gruppo, una serie di 29 banner, è stato intitolato “Project Turkmenistan“, non so se per i temi o per l’utilizzo dei colori tipici dei patchwork e delle opere tessili originarie di quel lontano paese asiatico. Dovrò approfondire. Intanto eccovi alcuni banner che lo componevano.
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Un’idea originale: un libro dove ogni pagina è un piccolo patchwork, uno per ogni singola quilter.
Un album della creatività.
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Cominciamo piano, quasi in sordina, senza esagerare con i colori, grazie a quest’opera di Anke Pradel, intitolata “Daina” …
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… e poi a questo cavallino dalla folta criniera di Markéta Št’astná.
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Solamente qualche nota di colore, più suggerita che espressa, in queste due opere di Jana Šterbová, il “Big Ben” di Londra, colla sua atmosfera nebbiosa…
… e l’inconfondibile ansa della Vltva che racchiude uno dei più bei gioielli della Boemia: la cittadina medievale di “Český Krumlov“.
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Un solo colore, ma in tutte le sue gradazione di luce per questi lavori di Barbara Lange.
“Monochrom VII – Ameise mit Blattlaus” “Monochrom I – Blauer Käfer”
“Monochrom VIII – Glühwürmchen” “Monochrom IV – Orange Biene”
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Blanka Procházková ci propone questa variopinta operazione matematica “3 x 3 = Nine Patch”
Dettaglio
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Mare, fuoco e terra in questo “Ohnová zeme” di Jana Lálová. Così forte è più di un patchwork, magari è un desiderio di scappare agli antipodi…
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… oppure andare con Irina Smishlyaeva alla ricerca dell’albero del mondo, nelle lontane terre mongole oltre Alma Ata, a “Tengri Umai“.
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Difficile sfuggire allo sguardo vagamente minaccioso di “Red iguana” di Elke Boesewinkel.
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Un’esplosione di colore e di luce in questo “Vetrný vír“, il tornado di fuoco di Helena Syslová.
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“Stále pod dohledem” di Helena Fikejzová. Mmm… ho come l’impressione che qualcuno mi tenga d’occhio. Mah, forse è solamente la mia immaginazione.
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Un paeaggio non è solamente descrizione, ma sono soprattutto sensazioni e ricordi, ed è quanto Elisabeth Nacenta de la Croix cerca di riportare alla luce con la stoffa…
… e come non sentirsi completamente immersi nella natura (un bosco, un giardino, un frutteto) osservando questa “Terre Verdoyante“?
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Janet Twinn con il suo “Prelude” ci riporta i colori caldi, confortevoli, come quelli per esempio del vigoroso tepore di un caminetto acceso…
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… e sulla parete di quercia del salone, fra i trofei di caccia, sarebbe perfetta quest’opera di Milena Kankrlíková intitolata “Svítání“.
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“Ozívající tradice” di Jitka Jirkovská mi ricorda le fastose e ricercate decorazioni in stile rinascimentale dei castelli boemi, nelle quali la natura aveva finalmente preso il posto delle figure ieratiche del medioevo.
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Jaroslava Grycová ha creato questa originale composizione floreale intitolata “Kvetinová dvojčata“. Scommetterei che ha pure il “pollice verde”.
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“Strom zivota” di Kveta Sudová. Chissà, forse anche lei è stata influenzata dalle esoteriche leggende dell’Asia Centrale.
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Dal mito al sogno il passo è breve, e Dana Velehradská ci porta nel suo fantastico “Zahrada snu“.
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Jana Haklová con il suo “Po pozáru” ci ricorda che l’incuria dell’uomo e il fuoco trasformano troppo spesso il sogno in un incubo.
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Qui invece Jana Haklová è più ottimista, e riporta i freschi colori mattutini con “Ranní rosa” .
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Kamila Studená e Oldriška Smékalová trovano nei fiori della Persia la loro ispirazione.
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Lo splendore effimero dei fiori ci dovrebbe ricordare la breve durata delle stagioni, di tutte le stagioni, quelle del calendario e quelle della vita. Suppongo che sia questo il messaggio che Joyce Watson voglia trasmettere con le sue “Ephemeral seasons“.
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La natura è sempre fonte di ispirazione, con tutte le sue tonalità di verde che infondono tranquillità. Gli alberi lo sanno bene, per questo se ne stanno sempre impassibili, come questi di Helena Prokopová in “Stromy nadeje“.
Ecco alcune originali opere che l’associazione scozzese “Turning Point” ha portato a Praga. Prendendo spunto dalle antiche tradizioni celtiche, tradizioni che avevano il loro punto nodale nel rapporto tra la natura e l’uomo, ognuna delle quilter scozzesi è andata alla ricerca del “suo” albero di riferimento. Consultando l’antichissimo calendario celtico, l’artista ha trovato il collegamento tra la sua data di nascita e l’albero corrispondente, una specie di segno zodiacale del regno vegetale, e lo ha trasposto simbolicamente su un arazzo assecondando il suo gusto espressivo.
“Aspen – The whispering tree” per Jan Watson
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“Silver birch” per Mary Ennis
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“Ash – The tree of life” per Margaret O’Gorman
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“Scots Pine – Celtic sentinel” per Joyce Watson
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“Hawthorn” per Margaret Morrow
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“Oak” per Pat Archibald
Scambio quattro chiacchiere con le quilter scozzesi e scopro che si trovano benissimo in Boemia, sentono “aria di casa”, nel senso che il tempo è grigio, fa freddo, e ogni tanto una spruzzata di neve crea l’effetto “zucchero a velo”.
Qualcuna di loro però vuole scappare via dalle fredde terre del Nord e sogna (o ricorda?) un’altra atmosfera. Si tratta di Pat Archibald che col suo “African enigma” unisce benissimo sfumature calde e fredde.
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Anche Britta Ankenbauer ama gli accostamenti rischiosi. Quest’opera “Anyway today” è puro studio cromatico, e io, pur non avendo una preparazione artistica adeguata, non posso che apprezzarne il difficile equilibrio.
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Globi fiammeggianti per Mary Ennis e le sue “Turning spheres“.
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Quella giramondo di Pat Archibald ci riporta in Scozia, nella sua Edimburgo, con un’opera che sta a metà tra la skyline e il paesaggio, oso dire di gusto vagamente giapponese. Si tratta di “East, West, Hame’s Best“, una visione da Est a Ovest di Edimburgo al tramonto, con le Am Monadh, i Monti Grampiani, sullo sfondo. Piccolo inciso: “Hame” non è un refuso, significa “casa” in scozzese.
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Non mi staccherei mai da quest’opera di Isabelle Wiessler intitolata “Urban IV“, è ipnotica, con la sua quiltatura sinuosa, e i suoi volumi essenziali. E’ la dimostrazione che non sono indispensabili soggetti altisonanti o d’effetto per comporre un’opera d’arte.
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Che ci crediate o no, anche l’opera che vedete sotto è un paesaggio. Si tratta di una vista dall’alto delle Kayford Mountain, in West Virginia, vicino a Charleston. Quella zona della catena dei Monti Appalacchi, fonte di ispirazione per il compositore Aaron Copland ai quali ha dedicato una famosa suite e che nella parte meridionale ha fornito l’ambientazione per alcuni memorabili film, “Un tranquillo weekend di paura”, “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, “Ritorno a Cold Mountain”, “Nell”, tanto per citare dei titoli.
La zona di Kayford è stata devastata dalle miniere di carbone, l’inquinante combustibile con il quale il West Virgina produce il 99% dell’energia elettrica. Prima vengono tagliati tutti gli alberi, poi, a forza di esplosivi vengono “decapitate le montagne per estrarre il carbone. Ogni anno viene utilizzata una quantità di esplosivi pari a 27 volte quella della bomba atomica sganciata su Hiroshima. Ciò che rimane è un paesaggio, spoglio, devastato, lunare, stravolto sia dal punto di vista ambientale che quello sociale, con la cancellazione di intere comunità e tradizioni. E’ chiaro che sull’altare del business sono state sacrificate le persone, l’ambiente e la memoria storica della regione. Anche il “dimenticabile” presidente George W. Bush sponsorizzò questa scelta scellerata e disse «Ma vi rendete conto che l’America ha carbone a sufficienza per 250 milioni di anni?» (e questo la dice lunga sul grado di preparazione del personaggio in quanto gli anni sono solamente 250). Paragrafo ricavato da “Il carbone che decapita le montagne * di Marco Magrini – il Sole-24 Ore
L’immagine sottostante riproduce uno scorcio di una miniera esaurita in corso di bonifica, e le aree verdi-azzurre sono lo strato di idroseme, una miscela di fertilizzante e germogli a crescita rapida, destinato purtroppo a dilavarsi e smottare alle prime piogge. La fotografia aerea che ha più colpito che ispirato Isabelle Wiessler è stata realizzata dallo studio J Henry Fair. Ne potete trovare altre di queste drammatiche “cicatrici industriali” sul loro sito web . Ringrazio (a malincuore) Isabelle Wiessler per aver dimostrato che un patchwork può avere anche altre funzioni oltre a quella ornamentale.
Isabelle Wiessler “Kayford Mountain, West Virginia”
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Romana Černá con il suo pannello “Podzim na hladine” ci riporta in autunno, che però non mi sembra tanto diverso da questa “finta” primavera boema.
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Dall’Olanda il gruppo Texui ha portato questa serie di banner.
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(Sopra) Foglie che si dispongono casualmente (o no?) a disegnare una farfalla, splendida ed effimera come l’estate indiana “Babí léto“.
(Sotto) Misterioso e quasi trascendente il pannello “Návrat ztracených duší”
Sono due lavori di Helena Fikejzová che hanno bisogno di un attimo di riflessione in più
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“Abbasso la geometria!” sembra gridare questo piccolo gioiello ralizzato da Helena Fikejzová. Nel suo lavoro “Za oponou” non c’è una sola riga diritta, ma la varietà di stoffe, forme e oggetti che compongono questo lavoro lo identifica come un vero patchwork nello spirito e nell’effetto.
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E ancora curve, morbide, misteriose, avvolgenti. Si tratta di “Paisley“, un’opera di Jan Watson. Sulle prime non riuscivo a vedere il collegamento con la città scozzese, poi ho scoperto che si tratta di un’antica decorazione indiana o persiana, un disegno che nel 19° secolo divenne caratteristico dei preziosi scialli in lana prodotti proprio a Paisley, da cui prese il nome, ma che da noi è più noto con il termine “botè”, dall’originale asiatico “boteh”.
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Ecco ora due delicatissimi quadri di Romana Černá, la quale, girando per Praga, ha trovato questi scorci suggestivi. Non so se definirli ancora patchwork, ma di sicuro si possono essere classificati come arte tessile.
“Lampa”
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“Okno“
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Nostalgia del bel tempo che fu in quest’opera di Jindriška Katzerová intitolata “Staré dobré časy“.
E’ curioso che si idealizzi così il passato, un passato che non si ha vissuto tra l’altro. E’ un po’ come nel film di Woody Allen “Midnight in Paris” nel quale c’è sempre un passato più passato degli altri da sognare, mentre noi, volendo, abbiamo già un futuro da sognare e un presente da vivere. Ma forse stiamo facendo altro…
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Un’altra artista molto estrosa è Eva Bovoli la quale, parole sue, ama fare a maglia per poi aggiungervi delle belle stoffe, al fine di creare delle piccole e gioiose opere d’arte che siano carezzevoli sia per l’occhio che per l’anima.
Ave Kaffe Fasset I
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E ora, il finale, esattamente come l’inizio, con tanti colori e tanta allegria. Dopo essersi scervellati per cercare di interpretare delle opere con notevoli velleità artistiche, è il caso di rilassarsi un po’, smettere lo sguardo puntuto e indagatore per disporsi di buon grado per apprezzare delle creazioni meno ricercate, ma non per questo meno godibili.
“Iluze” di Voršila Suchardová. Riuscite a vederlo in 3D?
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Con “Jaro v Ostrave” Danuše Brezinová ci mostra com’è la primavera a Ostrava, colori vividi su un fondo scuro, praticamente nero, come il carbone che dal ‘700 ha condizionato la vita di quella regione, portando ricchezza, ma anche un pesante inquinamento.
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Marta Drozdová, “Manka a Quido“. Aiuto! Chi sono Manka e Quido?
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E per chiudere in bellezza, cosa c’è di meglio di un caldo sorriso? Il lavori di Renata Juračková sprizzano allegria da tutti i fili e questo “Vzpomínky na Kubu” non fa eccezione. Suerte!
Postfazione.
Va da sé che alla mostra c’era ancora molto altro da vedere, e che io ho riportato solamente una parte di quanto era esposto, assecondando il mio gusto e le mie sensazioni; oltre a quelle presenti nel blog, ho inserito qualche altra immagine della mostra in Flickr.
Un piccolo inciso per chi conoscesse il ceco: nell’articolo potrebbe mancare qualche háček (pipa) e me ne scuso. Purtroppo il server del blog non riconosce alcuni caratteri speciali, e nella composizione, durante il passaggio tra un browser e l’altro, anche qualche č e š potrebbe essere andata smarrita. Se vorreste essere così cortesi da segnalarmi qualche inevitabile refuso, apporterò immediatamente le correzioni del caso.
Bene, a questo punto penso di aver assolto ai miei doveri di “cronista” e mi concedo lo spazio per alcune personalissime (e opinabili) considerazioni.
In primis, la tendenza stilistica della mostra. Il patchwork nasce essenzialmente come rappresentazione astratta e simbolica, anche se ultimamente si è assistito a varie forme di realismo più o meno spinto fino ad arrivare al neoespressionismo.
Rispetto alle prime edizioni dell’esposizione praghese, si nota un sensibile ritorno verso l’astrattismo, la rappresentazione concettuale e l’informalismo. Questa tensione verso forme artistiche in grado di liberare il patchwork dalle catene del puro passatempo (utilitaristico o meno) è ammirevole, a patto che non si rincorrano modelli già visti, e che si mantenga la valenza primaria dell’impegno fisico (la manualità per intenderci).
E questo mi porta inevitabilmente alla seconda osservazione: ho constatato, con estremo rammarico, il pericolo d’estinzione della quiltatura a mano. Comprendo benissimo che questa lavorazione si scontra con l’esigenza di dare rapidamente forma al ciò che frulla nella nostra mente, ma vorrei ricordare che, come diceva T.A. Edison, il successo è composto dal 10% di ispirazione e dal 90% di traspirazione. Gli strumenti odierni permettono lavorazioni impensabili solamente una cinquantina di anni fa, e indubbiamente favoriscono la composizione di opere complesse e di grande effetto. Ma nessuno di questi marchingegni può superare la finezza di una quiltatura a mano, la quale valorizza entrambi i lati dell’opera, e non solamente quello visibile, e ne dà la vera cifra culturale. Gli inglesi, splendidi aforisti, solevano dire che la civiltà è come una sedia impagliata, perfetta di sopra e perfetta di sotto, altrimenti è un oggetto di scena.
E ora passiamo al tasto dolente. Ho notato con disappunto che anche nel meeting di Praga ha preso piede l’abitudine di vietare le fotografie dei lavori esposti. Posso capirlo questo divieto in casi particolari, pinacoteche, edifici di particolare valore storico, musei, esposizioni di grandi capolavori per i quali esiste già una corposa documentazione, oggetti antichi sensibili alla cruda luce del flash, e così via. Mi risulta invece incomprensibile questo atteggiamento ostile nel caso di una mostra patchwork, una manifestazione che dovrebbe costituire l’occasione per mostrare le proprie opere a un pubblico il più vasto possibile, e per pubblico intendo anche coloro che, non avendo la possibilità di raggiungere località molto distanti, si devono accontentare di rifarsi gli occhi su internet. E non mi si venga a dire che c’è il timore che le opere possano essere copiate: nessuna artista di valore (e quindi di pari abilità) esporrebbe dei lavori che apparirebbero come delle palesi riproduzioni. Da parte mia non posso che adeguarmi alla scelta di non permettere la riproduzione fotografica di quelle opere (peraltro assolutamente non trascendentali), e delle quali non riporto né le immagini e né riferimenti all’artista (più dispetto che rispetto, lo ammetto).
Posso senz’altro dire di aver notato, come la passata edizione del resto, una sensibile evoluzione artistica delle quilter ceche, la costante ricerca di uno stile che le contraddistingua. In Boemia non mancano sicuramente gli spunti e i soggetti dai quali esse possono attingere a piene mani, e avrei trovato sterile un eventuale appiattimento su modelli di patchwork già ampiamente esplorati in altri paesi; la sensazione di deja-vu conseguente avrebbe fatto svanire quell’aria in acerba freschezza che pervade l’esposizione praghese.
Dal lato internazionale non c’erano nomi altisonanti come quelli del meeting 2012. Le collezioni, per me, più emozionanti erano composte dai lavori del concorso “Wide Horizon III“, opere che ho già illustrato nell’articolo su Abilmente Autunno 2012, i lavori del gruppo scozzese Turning Point, e la galleria di Isabelle Wiessler.
So già che sto facendo torto a qualche artista, ai gusti di chi non è d’accordo con me sulla scelta dei lavori citati e soprattutto non condivide le mie considerazioni. La mia risposta è sempre quella: andate e vedete. Chi desiderasse apprezzare una panoramica più estesa di quella che ho realizzato qui, può informarsi sulla disponibilità del CD realizzato per il PPM 2013 a questo indirizzo:
info@praguepatchworkmeeting.com
Che altro dire. Ho incontrato la Boemia solamente grazie al Prague Patchwork Meeting, e ora i ruoli si sono invertiti: amo visitare la Boemia, e già che ci sono faccio una scappata al Prague Patchwork Meeting, ma finora non mi hanno mai deluso, né l’una né l’altro. Spero con tutto il cuore che sia sempre così, ne ho bisogno; ho bisogno di sapere che esiste un cantuccio sulla Terra dove scappare, e che sulla rive della Vltva ci sono delle artiste in grado di tessere un sogno.
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