Primavera. Un sole ancora giovane dipinge di rosa i ciliegi. Papaveri rossi come gocce di sangue stillate dal prato. Tutti gli arcobaleni che riescono a imbastire gli iris. Luce, luce, luce, per uscire, giocare, sognare. Primavera, la stagione più bella. In teoria… Come ignorare anche gli aspetti meno gradevoli della primavera? La natura si risveglia, e con lei tutte le allergie derivate, con gli effetti che ben conosciamo: raffreddore, occhi lucidi e tosse, variamente assortiti. Il caldo, tanto bramato, arriva senza bussare, e ci causa spossatezza e indolenza, proprio quando tutto ci spronerebbe all’azione. Tempo pazzo, non si sa mai come coprirsi, o troppo o troppo poco, in giaccone col sole, in giacchetta colla pioggia, e una bronchitella se ne sta sempre in agguato. Anche tutta quella luce che cala prepotente da un cielo ancora non oppresso dall’umidità estiva ci sbalestra, sconvolge il nostro ritmo circadiano, e con lui vanno a farsi benedire tutte le buone abitudini dell’organismo che si regolavano sul nostro orologio interno. Ancor peggio va a chi approfitta di qualche ora di luce in più per allungare la sua giornata lavorativa, garantendosi un bel surplus di affaticamento. Per buona misura ci levano anche un’ora di sonno, grazie all’ora cosiddetta “legale”, aggravando lo stato di torpore mattutino che sempre si accompagna a questo periodo dell’anno. Nei casi peggiori si arriva a una sorta di depressione primaverile, la SAD (Seasonal Affective Disorder), durante la quale la mente rifiuta di accordarsi con l’esuberanza circostante e la combatte con l’apatia.
Se pensate che i malanni di stagione siano tutti qui, vi state sbagliando, poiché il peggiore, quello al quale non si sfugge, fastidioso come un tafano, inesorabile come una cartella di Equitalia, puntuale come la nuvola del Rag. Ugo Fantozzi, fatale come quel famoso iceberg nell’Atlantico settentrionale, sta proprio per colpirvi in questo esatto momento: si tratta del mio solito post di primavera sul Prague Patchwork Meeting.
Eccolo, lo sento, il sospiro di rassegnazione, quello di chi si accorge di essere caduto nella trappola di un titolo mendace e fuorviante. Ad averlo saputo prima… Che ci volete fare, Praga per me è uno straniarsi da ciò che è usuale per scoprire sempre nuove affinità tanto sorprendenti quanto profonde. Come già scrissi, un dì arrivai a Praga per il patchwork, ma ormai esso è solamente una delle componenti che mi spinge ogni anno verso la Boemia.
Ci sarebbero il cavallo di Troia, il dipinto di 1040m², l’orologio che va al contrario, il modello in scala 1:420 della città com’era nel 1830, la via reale con la negredo, l’albedo e la rubedo, la colonna del Diavolo, la casa di Faust, la fata verde, la tomba di un sepolto vivo, il cammello che passa per la cruna di un ago, la colonna infinita di libri, il castello di Adele Bloch-Bauer, l’ascensore a paternoster, senza contare tutto il resto che già si sa, e allora datemi una buona ragione, una sola, per la quale non dovrei andare a Praga per il Patchwork Meeting.
Abetaie, prati, basse colline, rivi, salici, un verde arcobaleno orizzontale scorre veloce accanto al finestrino del treno che mi porta da Praga a Vienna. È un bel viaggiare, anche se già ora vorrei farlo nel verso opposto.
Prima di cominciare a raccontarvi qualcosa della mia (decima?) escursione praghese, permettetemi di darvi una spiegazione di questo titolo un po’ enigmatico “Lascia o raddoppia?” Dopo Sitges, dopo Birmingham, dopo la Val d’Argent, e soprattutto dopo aver visto ben otto edizioni del Prague Patchwork Meeting provavo, come dire, un certo senso di “sazietà”. Non che mi sia stancata del patchwork, sia chiaro, ma avendo già un’idea di cosa mi aspettava a Praga, supponevo che mi sarebbero mancati quel tanto di mistero e sorpresa che rendono invitante ogni mio viaggio. Per quest’anno quindi ero intenzionata a lasciare, ovvero passare la mano a chi, leggendo il mio blog, provasse maggior curiosità per questa mostra, e per la città di Praga s’intende. Pare evidente che, trovandomi ora a scrivere questo post, ciò non è avvenuto, e che alla fine in Boemia ci sono andata, ma ancora non si spiega quel titolo bislacco, e nemmeno il fatto che io stia registrando le mie sensazioni “ora”, quando invece sono abituata a farle “decantare” per un po’, quasi a far loro prendere aria come si fa col vino per ravvivarne gli aromi.
Nell’attesa consolatevi (o preoccupatevi) con questo particolarissimo quilt.
Il messaggio è chiaro: l’orologio del tempo non si ferma mai, perciò, per quanto possibile, cogliete l’attimo.
Per inciso, quest’opera è abbastanza in sintonia con il tema del mio ultimo viaggio, ovvero “una Pasqua da in-cubo”, ma per il momento non voglio svelare altro.
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Portate pazienza.
Ci sono immagini da editare, videoclip da montare, testi da inventare, e poi bisogna scegliere, scegliere, scegliere, ed è sempre questa la parte più difficile.
Un po’ alla volta l’articolo sulla mia ultima escursione prende forma, ma mi ci vorrà ancora del tempo prima possa considerarlo “presentabile”.
Nell’attesa inserirò ogni tanto nel blog qualche fotografia, giusto degli stuzzichini per mantenere viva la curiosità.
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Vi capisco, ancora una volta, l’ennesima, sono qui a raccontarvi qualcosa del Patchwork Meeting di Praga, ancora una volta, l’ennesima, vi toccherà di sorbire le mie magnificazioni di quanto sia bella Praga, di come mi trovi bene lì, di quali piacevoli sorprese sia ricca, eccetera, eccetera, eccetera, ancora una volta, l’ennesima, leggerete i miei commenti più o meno originali, più o meno inutili, sulle opere esposte, ancora una volta, l’ennesima, dovrete sopportare le mie considerazioni non sempre, anzi quasi mai ragionevoli, ancora una volta, l’ennesima, vi farò partecipi della mia perplessità sul fatto che ciò che è possibile nella Repubblica Ceca sembri un’utopia (o un lontano ricordo) in Italia.
E mo’ basta.
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