Via, via, via!
Vienna, Praga, Brno, tre esperienze, tre sensazioni, tre caratteri, e tre per tre fa nove, nove giorni durante i quali abbiamo scarpinato, guardato, scoperto, incontrato, viaggiato, mangiato e, ça va sans dire, bevuto, nove giorni alla ricerca di ricordi e speranze, nove giorni che hanno infranto quella gabbia di tristezza che mi imprigionava da un paio d’anni.
La Rossana che era partita all’alba di un grigio martedì, è ritornata dopo una settimana e mezza con un considerevole bagaglio di ricordi ma più leggera nello spirito.
A questo punto viene buona una delle gianografie scritte dal mio sherpa / agenzia turistica / pusher / fotografo / ecc., e si intitola “ADDIO”.
Il viaggiatore non conosce ritorno. A partire è uno, a tornare è un’altra persona. Qualora tornasse quello stesso uno è come se non fosse mai partito.
Mi corre l’obbligo di spiegare le cause di questa mia metamorfosi minima, ovvero di come una semplice gita in luoghi meno che esotici e neppure del tutto sconosciuti abbia potuto sortire un tale benefico effetto.
Mi si dirà che l’esperienza ritrovata di un viaggio all’estero, dopo mesi e mesi di soggiorno obbligato, è già condizione sufficiente per rinfrancare lo spirito, e forse è vero.
Magari ha contribuito pure l’allentamento delle misure sanitarie antipandemiche di Austria e Cechia, un certo lasseiz-fare che, pur giudicandolo avventuroso, ci ha regalato quel briciolo di serenità che mancava da due anni e passa. Non mi illudo, non è finita, non è ancora giunto il momento della pace, ma una tregua è sempre una tregua, e guai a non approfittarne.
Come sempre sono debitrice nei confronti della mia personale agenzia di viaggi, la quale stavolta si è superata regalandomi a Praga la più bella sistemazione che potessi desiderare, e anche questo fatto ha di certo contribuito a volgere al bello il mio stato d’animo.
Tutto vero, però la causa “scatenante” di un tale capovolgimento emotivo è meno appariscente, e forse soltanto ingannevole, come il succedersi imprevisto di eventi suggestivi che formano un quadro visibile solo a chi è disposto a emozionarsi.
Il primo di questi è, non ci crederete mai, Praga.
Dubitavo, lo confesso. Nel corso degli anni mi sono ritrovata a detestare un turismo invasivo e incolto, oltre a provare amarezza per una certa decadenza dei costumi sociali, perciò temevo di scendere in una città piegata dalla pandemia, dalla crisi e dalla paura, una crisalide vuota.
E invece, guarda là, mi sono ritrovata ad abbracciarla come i primi tempi, mi ha riconquistato con un’inaspettata dimostrazione di vitalità, un palese rifiuto di arrendersi alle avversità che la peste cinese ci ha dispensato a piene mani, una città che anzi ha deciso di alzare la posta con tutta una serie di iniziative, sia istituzionali che private, il che, lasciatemelo dire, è stato come un raggio di sole se lo paragoniamo al plumbeo immobilismo al quale ci siamo, purtroppo, assuefatte.
Non meno stimolante è stata l’occasione di ammirare i quilt esposti a Brno, e per due motivi. Il primo risponde a un’emozione empatica, quella di gioire assieme alle quilter ceche per la rinascita del Prague Patchwork Meeting, una manifestazione che ho sempre amato per motivi che superavano il mero interesse per il patchwork. Il secondo motivo di soddisfazione è stato determinato dalla qualità delle opere esposte, e soprattutto dalla precisa scelta di muoversi in direzione dell’arte, pur essendo questo indirizzo sempre impegnativo per una quilter giacché comporta più domande che risposte.
Chi frequenta questo blog saprà già che a me piace prendere le cose molto alla lontana, e perciò, prima di arrivare a Brno, la mia agenzia di viaggi ha organizzato delle escursioni culturali a Vienna e Praga alla scoperta di attrazioni e opere note o meno note, antiche o contemporanee, gradevoli o criptiche, consone o sorprendenti, e di ciò trovate traccia nello zibaldone visuale del breve filmato che è stato inserito in fondo a questo articolo.
Direi che sarebbe ora che vi parli finalmente del Prague Patchwork Meeting di Brno.
Siamo in Moravia, una regione sudorientale della Repubblica Ceca, che però nel Medioevo si estendeva dalla Pannonia alla Slesia comprese, per disintegrarsi all’inizio del X secolo sotto la pressione degli Ungari. Brno divenne unica capitale della Moravia solamente nel 1648 in virtù della sua favorevole posizione difensiva rispetto a Olomouc, un’altra delle tre “capitali” della Moravia assieme a Znojmo.
Cosa potrei dire di questa nuova collocazione della mostra? Uno dei vantaggi è costituito dalla sua prossimità al confine austriaco. Anche se il piccolo aeroporto locale offre pochissimi collegamenti, andrebbe considerato il fatto che bastano solamente due ore di treno per raggiungere l’aeroporto di Vienna, uno hub internazionale servitissimo, e ancor meno per la stazione ferroviaria della capitale austriaca.
Anche la sede espositiva è tutta un’altra musica rispetto a quella di Praga. Si tratta di un grande complesso che, pur avendo quasi un secolo di vita, appare modernissimo e funzionale a qualsiasi manifestazione fieristica, e per di più è relativamente vicino al centro.
Il Prague Patchwork Meeting ne occupava solo una piccola zona, non per esiguità della mostra ma per la vastità dello spazio a disposizione. In buona sostanza di posto per crescere ce n’è a iosa.
Per contro a Brno non è che ci sia tantissimo da vedere. Visitata la fortezza dello Spielberg, le ville Tugendhat e Löw-Beer, la cattedrale e qualche bel giardino, non c’è altro da fare che girare per il piccolo centro storico. Di posti interessanti ce ne sono anche in Moravia, però raggiungibili con una certa difficoltà se non si dispone di un mezzo di trasporto privato. Allora, visti i prezzi molto ragionevoli, noleggiare un’autovettura a Brno sarebbe un’opzione da non trascurare.
E allora andiamo, Sì, ma dove? Gli spazi sono vastissimi, mi ci perdo. Non mi resta altro che accodarmi a un gruppo di quilter che, ipotesi più che ragionevole, si sta recando come me alla mostra.
Ecco, si sono perse anche loro.
Dopo un po’ trovo finalmente l’ingresso sotto a un grande cartello dove c’è scritto “Exit”. Preferisco non commentare…
Per prima cosa andiamo a salutare Jana Štěrbová, deux ex machina di quest’araba fenice tessile. L’ho ritrovata sollevata dal risultato che stava ottenendo l’esposizione, e immagino che il timore di un flop dovuto alla sospensione della mostra per ben due anni e allo spostamento in una sede distante da Praga l’abbia provato, io almeno ne sarei stata vittima e non c’avrei dormito la notte. Più che farle i complimenti per la sua tenacia non so che altro dire, e allora via a vedere cos’hanno combinato!
Come nelle edizioni precedenti, una zona è stata riservata alle opere che hanno partecipato al concorso “Sauvage” durante il Carrefour Européen du Patchwork del 2021. A parte il fatto che probabilmente le conoscete già, se siete oltremodo curiose vi rimando al mio post “Val d’Argent 2021” nel quale ho riportato qualche immagine significativa e alcune mie considerazioni.
Siamo a Brno, e quindi andiamo al mare.
Non c’è un’anima artistica in Bára Bartošová, ce ne sono due. Un tale dualismo espressivo e inconciliabile si manifesta nella scelta dei suoi soggetti: scorci di Praga (dove forse ha vissuto) ed elementi della natura da lei riscoperta nella Boemia orientale.
Era inevitabile che ne scaturisse un impulso ecologista, e il mare, che troppo spesso è utilizzato come una discarica, trova posto nel suo immaginario, in forma di pesce o altro essere vivente, oppure come in questo caso in forma di energia, o per meglio dire di furia incontrollabile. Purtroppo nulla può il mare contro la stupidità umana, e quest’onda troppo mi ricorda la carica di un toro nell’arena, tanto impetuosa quanto incapace di ribaltare il suo fato.
Forse vi ricorderete come faceva quella vecchia canzone “nel blu dipinto di bluuu…”, così ho desiso di continuare su questa linea cromatica, e lo faccio con tutta la serie di sfumature di blu indigo che Glenda Mah crea seguendo le antiche tecniche apprese in Cina, Tibet, Thailandia, Laos, Corea, Cambogia e Giappone, sfumature che potete divertirvi a cercare nell’opera sottostante.
Tra le tecniche che lei ha imparato a utilizzare, la più spettacolare di tutte è la tecnica giapponese Shibori, utilizzata per ottenere fantasie astratte sul tessuto mediante piegature o legature, ordinate o casuali, a seconda dell’effetto finale cercato. Tre secoli di storia e seimila miglia di mare dividevano Glenda dallo Shiìbori, ma lei ci dimostra che nessuna distanza è insuperabile per un’artista.
Torniamo a casa, non la nostra ma quella di Jaroslava Grycová, la Moravia.
Ogni volta che vengo al PPM non manca mai l’occasione di ammirare i suoi splendidi quadri realizzati con la tecnica “confetti”.
Nella sua Moravia lei è capace di trovare degli angoli molto suggestivi dove la natura offre tutto quel che serve per realizzare un’opera d’arte, ossia spazio, luce, colore e forma.
Come una pittrice impressionista, lei adopera le briciole di stoffa per ricomporre un quadro che va oltre la semplice bellezza estetica, che trasmette un messaggio di serenità e di trascendenza. Se mi fermo a lungo davanti a una sua opera quasi mi pare di udire il leggero brusio delle foglie mosse da un alito di vento…
Di Gyöngyi Váradi ricordo ancora il calore che emanava il suo quilt intitolato “Exoplanet” visto a Praga nel 2015. Qui, pur essendo la struttura compositiva molto simile, lei ha cambiato registro. Tutti i colori sono freddi, e da questo cielo non scendono raggi solari, anzi esso minaccia di precipitarci sulla testa come se fosse acqua. Una sensazione del genere l’ho provata solamente in Norvegia, dove il mare è nero e il cielo si abbassa fino a sfiorarti la nuca.
Lo strappo poi, è un messaggio nel messaggio. Cosa vuole dirci Gyöngyi Váradi? Forse che dietro a un cielo, per quanto minaccioso esso appaia, c’è solamente il buio, il nulla? Forse che è necessario strappare la bidimensionalità dell’opera per entrare coraggiosamente nell’oscurità del mistero? O magari che il cielo era già strappato da sempre, e che il compito della quilter (e il nostro) è quello di tentare di ricucirne i lembi?
Lascio la risposta a voi.
Molto intrigante questo esperimento di contaminazione tessile realizzato da Sylwia Ingatowska.
Lei si è innamorata di un quadro di Josephine Wall riportato su stoffa, l’ha preso per aggiungerci tutto quello che la sua ispirazione le suggeriva in forma di esagoni multicolori per dare respiro all’opera, e infine ha eseguito una quiltatura adeguata per far risaltare le forme sinuose del quadro.
Il risultato è un’immagine ancora più ammaliante dell’originale, come se dal magma cromatico sorgesse la speranza di un mondo finalmente in armonia e in pace.
Per curiosità ho dato un’occhiata al sito web di Josephine Wall, e lì ho trovato altre bellissime immagini.
Più inquietante ma non meno interessante quest’opera di Enikő Nagy, un quilt che non è un quilt, è una composizione ricercatissima.
“Prigionia”, così è il titolo, e mi piace immaginare che sia stata ispirato dalle atmosfere siberiane dove László Hudec, uno degli architetti preferiti da Enikő, si trovò a trascorre qualche anno come prigioniero di guerra austroungarico.
In che altro modo interpretare gli strati sovrapposti di stoffa se non come taglienti raffiche di vento gelido su strati di ghiaccio, o scheletri di legno che galleggiano su una superficie che di liquido ha solamente le increspature? Il risultato estetico è impressionante, tanto da vicino quanto da lontano.
Passerei da un architetto relativamente vicino ai nostri tempi a uno che avendo realizzato le sue mirabili opere dalla fine del ‘400 ai primi decenni del ‘500 può forse venire considerato il primo grande architetto dell’età contemporanea (il Medioevo termina infatti nel 1492 con la scoperta dell’America), nonché uno degli ultimi esponenti del Tardo Gotico.
Ma prima di presentarvi l’omaggio che Romana Černá rende a quel maestro insuperabile, consentitemi di spendere qualche parola su Kutná Hora, luogo da visitare assolutamente.
Iniziamo col dire che fino al 1500 la città era importante quasi quanto Praga, e ciò grazie alle sue redditizie miniere d’argento. Di quel fiorente periodo ci sono rimaste le testimonianze di ricchi edifici, la “Corte italiana”, la cattedrale di Santa Barbara, un piccolo castello, una suggestiva passeggiata riccamente balaustrata e alcune antiche abitazioni.
A pochissimi chilometri da Kutná Hora, nella frazione di Sedlec, oltre alla chiesa dell’Assunzione della Vergine Maria e di San Giovanni Battista, sempre in stile gotico, è situata una costruzione che non saprei definire se bizzara o macabra. Si tratta dell’Ossario di Sedlec, una piccola cappella contenente circa 40.000 (quarantamila!) scheletri umani disposti in modo da formare delle composizioni ordinate e financo con velleità artistiche, così voluta dagli Schwarzenberg, una delle più influenti famiglie dell’impero asburgico, nonché padroni di mezza Boemia meridionale.
Invece di inserire qualche mia fotografia dell’ossario, stavolta preferisco proporvi un breve filmato vagamente surreale girato nel 1970 da Jan Švankmajer, per inciso uno dei registi cechi preferiti dal mio webmaster / guida turistica / sherpa / fotografo / autista / ecc.
Data la crudezza dell’ambiente, ne sconsiglierei la visione alle persone particolarmente impressionabili.
Le origini di questo ossario risalgono al XIII secolo, ai tempi di re Ottocaro II di Boemia, quando un frate di ritorno da una crociata portò con sé una giara di terra del Golgota e la sparse nel cimitero di Sedlec. Da quel momento iniziò una sorta di pellegrinaggio di cadaveri destinati alla sepoltura in quel luogo considerato “sacro”, sia per desiderio dei parenti e sia come conseguenza delle “ultime volontà”. Pestilenze e guerre contribuirono far crescere in maniera esponenziale il numero di defunti lì sepolti, finché nel 1500 si decise di riesumare i resti più antichi per far posto a nuove sepolture, conservando le ossa nei magazzini della chiesa, le quali nel 1870 costituiranno le macabre decorazioni della cripta attualmente visitabile.
Ma torniamo a cose più allegre, ovvero all’opera di Romana Černá dedicata all’architetto Benedict Rejt, al quale dobbiamo la grandiosa cattedrale gotica di Kutná Hora. Egli è inoltre l’artefice della Sala Vladislav del castello di Praga. Quel salone è di dimensioni impressionanti, lungo sessantadue metri, largo sedici e alto tredici, caratterizzato da un’imponente volta gotica a crociera ogivale.
Di Romana conoscevo bene la sua predilezione per tutte le sfumature del blu, dall’alice al denim, dall’acciaio al fiordaliso, perciò potrete ben comprendere la mia sorpresa quando mi sono trovata davanti a questa sua opera dove quella tonalità è quasi del tutto assente.
Il quilt soprastante faceva parte di una serie di opere realizzate dalle artiste di Art Quilt Harbour sul tema dello scarabeo della corteccia, o per meglio dire su quello e sui percorsi delle gallerie che le larve di quel coleottero scavano giusto sotto la corteccia esterna degli alberi. Purtroppo per Romana, il colore dominante era il marrone, chiaro quello del legno, scuro quello del coleottero, e il tutto le richiamava alla mente i ragni. Posso facilmente supporre che anche voi non proviate molta simpatia per quegli animaletti, ed era lo stesso per Romana, perciò lei decise di mutare il beige in bianco e il marrone in grigio. Ne è uscito fuori qualcosa che assomiglia a una vecchia parete con la malta screpolata e delle piccole falene che aspettano di staccarsi da quella.
Breve inciso di biologia. Lo scarabeo della corteccia attacca in genere solamente le conifere morte, mentre una pianta sana riesce a difendersi abbastanza bene. Se però la quantità di alberi morti è eccessiva questo coleottero si moltiplica in maniera tale da riuscire ad aggredire in massa anche fusti sani, i quali a loro volta si indeboliscono e muoiono. Per questo motivo, dopo la tempesta Vaia che ha abbattuto decine di milioni di conifere, era urgente rimuovere quanto prima tutte le piante che il vento aveva schiantato.
Nessuna mostra patchwork può dirsi completa se non c’è un’opera enigmatica di Eszter Bornemisza. Ogni volta lei ama giocare con i materiali, le sovrapposizioni e le trasparenze, e ogni volta il risultato è spettacolare
Più di dieci anni sono passati da quando ebbi l’occasione di vedere per la prima volta una delle sue composizioni, e da allora non ha mai smesso di offrirmi l’occasione di riflettere sul vero valore di un lavoro tessile, su quando quello smette di essere artigianato per diventare una meravigliosa opera d’arte.
Una delle caratteristiche dei suoi lavori è l’impossibilità di dare loro una loro collocazione temporale. In qualsiasi anno siano stati immaginati e assemblati, sembrano tutti realizzati domani.
Ecco un esempio di come un quilt, senza cercare di essere accattivante, senza tentare di sedurre con la forma o il colore, senza vantare preziosismi tecnici, senza offrire mirabolanti effetti speciali, riesca comunque a risultare affascinante.
Forse si tratta della versione tessile del motto “Less is More“, coniato dall’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe, il padre del razionalismo, o magari segue l’altissima arte del levare il soverchio di michelangiolesca memoria. Come che sia, lei ha abbandonato la vecchia strada che finora l’aveva contraddistinta, forme complesse e dettagliate, colori fusi o contrastanti, figure parzialmente riconoscibili, per approdare alle rive di un universo schematico e resiliente, quasi una parete di sempiterni marmi.
Ecco la conferma che la stoffa è come il maiale, ovvero non si butta via niente.
Su un arazzo carino realizzato a piccolo punto Anneliese Jaros ha aggiunto alcune poche forme forme che sembrano nuvole, ombre e onde, fino a comporre un’immagine che si distacca dalla realtà per diventare immaginazione pura.
Quasi mai monocromatica, Andrea Landovská stavolta ha dovuto arrendersi al solo colore del soggetto che ha scelto di rappresentare, ovvero l’acqua.
A meno che non ci si trovi di fronte a un fiammeggiante tramonto, oppure che si ammiri i riflessi di un plenilunio, l’acqua, intendo l’acqua limpida, offre “solo” un’infinità di sfumature o contaminazioni del blu.
Allora lei, per ripicca, s’è sbizzarrita nella composizione, l’ha fatto con un una precisa scelta di volumi, e per buona misura ha richiamato l’andamento ondulatorio di questo liquido vitale nella quiltatura, nel corso degli strappi ciniglia e nel movimento di quella serie di salviettine struccanti (ipotesi mia…) preventivamente colorate e sapientemente assemblate.
Che ci volete fare, per quanto io parli d’arte, di ispirazione, di ricerca estetica, di evoluzione stilistica, resto sempre un po’ bambina, e quando vedo certe immagini come questa qui sotto mi si scioglie il cuore.
Mi sono soffermata parecchio davanti a questa foresta da favola per tentare di capire perché mi emozionasse tanto. E poi ho notato come non fosse affatto una foresta, ma nemmeno un bosco, casomai un frutteto di montagna, o magari quelle chiome rosse non erano alberi ma giganteschi funghi, tanto si sa che nelle favole tutto è concesso…
In poche parole è stato un attimo di serenità, un soffio di brezza montana, il passaggio momentaneo di sottili profumi campestri e l’impressione della stessa leggerezza delle ali di una farfalla.
Novità sul fronte dei materiali per questo lavoro di Jana Štěrbová, mai autoreferenziale, mai ripetitiva.
Si tratta di acrilico su Evolon, una microfibra che trova molte applicazioni grazie alla sua morbidezza e alla capacità di traspirazione. La realizzazione di questo sfondo colorato sarebbe stata ben più complessa utilizzando il cotone o la tela di canapa.
L’opera di Jana rappresenta chiaramente una radice celata che affonda in un terreno rossastro e giunge con una certa sofferenza fino a una barriera più dura rappresentata dal colore grigio pietra. La sua sorte sarebbe segnata, però la radice trova fortunosamente una finestra amica, la quale le permette di allungarsi oltre la barriera e di diramarsi in cerca di nuove sostanze nutrienti (o ispirazioni) per far crescere rigoglioso il visibile.
Elegante, perché con pochissimi elementi trasmette un messaggio colmo di significati.
Conoscevo Piroska Pásztor per le sue composizioni geometriche, come “Twilight” visto a Parma nel 2013, oppure “Carmina Burana” in Val d’Argent nel 2016, ma stavolta lei ha deciso di rappresentare un soggetto che mal si presta a essere spezzettato in quadrati e triangoli. Si tratta dell’acqua, e per la precisione di quella che si muove pigramente accanto a un moletto.
Esperimento perfettamente riuscito, anche grazie all’originalissima idea di utilizzare uno strato di rete a trama molto sottile per esaltare i riflessi dell’acqua
Chi l’ha detto che il patchwork è roba da donne?
Jochen Hüttermann è un’altra dimostrazione che così non è, anche se, devo ammetterlo, ho come l’impressione di una diversa sensibilità rispetto ai colori, al loro peso e alla relazione con le forme. Non saprei dire se l’assenza di un imposto imprinting estetico li renda più liberi e temerari nella composizione artistica, e non riesco a dare un confine comprensibile a questa sensazione sfuggente; però essa c’è.
Ma forse si tratta soltanto di inconsci preconcetti, per i quali chiedo venia.
Ecco ora un altro quilt che ha catturato la mia attenzione. Il soggetto è immediatamente riconoscibile, si tratta di un corvo su un ramo spoglio, quindi niente graziosi uccelli variopinti, niente foglie e fiori, niente cieli azzurri, solamente un volatile scuro in un’uggiosa giornata invernale.
Perché allora mi sono innamorata di quest’opera? La risposta sta nell’essenzialità del tema, come pure nella composizione del quadro.
Due oggetti/soggetti: un albero e un corvo, immobili entrambi. Dell’albero vediamo solo alcuni rami nudi, e quei fili lasciati pendere con studiata trascuratezza danno il senso dell’avvenuto disfacimento delle fronde. Quel corvo, uccello tra i più intelligenti in natura, sta osservando qualcosa, pronto a gettarsi su un pezzo di cibo che ha intravisto, oppure a scappare se avverte la presenza di un pericoloso intruso. La posizione di quel volatile, non al centro della struttura grafica, rafforza l’impressione che stia proprio per spiccare il volo e uscire da quel rettangolo di stoffa.
In buona sostanza si tratta di un messaggio di speranza, ovvero che anche nei periodi più duri la natura non si dà per vinta, continuando a lottare con i mezzi che ha, e così dovremmo fare pure noi.
Chi non si è certamente arresa è Marianna Rigler, la quale, a pandemia appena iniziata, ha deciso di imbastire un patchwork molto particolare utilizzando gli avanzi di un lavoro precedente, briciole di stoffa lasciate cadere su un sentiero immaginario per non rischiare di perdersi nel bosco della tristezza e della paura.
“Shift” in inglese sta per cambiamento o spostamento, di turno, di direzione, di opinione, di marcia, del tempo, nonché del carrello per battere le lettere maiuscole sulle vecchie macchine da scrivere.
Se osservate con attenzione l’immagine che mostra il patchwork completo potreste avere l’impressione di non distinguere bene, forse per un’immagine scattata non perfettamente a fuoco oppure per un difetto della vista, ma non è così. Il dettaglio spiega tutto: si tratta di un effetto ottico causato dal punto ornamentale utilizzato per unire i quadratini di stoffa. L’inclinazione incrociata dei punti suggerisce all’occhio la presenza di una vibrazione, un movimento breve e ciclico, uno “spostamento” di breve respiro ma senza tregua tra due punti, due stati d’animo, due eventi ravvicinati, due notizie contrastanti, il timore e la speranza, le notizie buone e quelle cattive, gli errori e le conseguenze, l’andare e il restare, la regola e la rivolta, il malato e il sano, la distanza e il contatto, la verità e la smentita.
Tutto questo abbiamo vissuto in quel periodo tremendo, e, al pari di un terremoto, quella vibrazione ha incrinato gli animi e offuscata la vista.
Le opere di Mirka Kalinová sono sempre imprevedibili. Lei passa da una rappresentazione decisa, netta, con tinte accese di scorci urbani o di edifici quasi stilizzati, a immagini bucoliche, paesaggi naturali o agresti, per arrivare a lavori come questo sottostante, leggero, quasi impalpabile, con un tema suggerito più che rappresentato.
I casi sono due, o si tratta di un artista particolarmente eclettica oppure non ha ancora deciso cosa farà da grande. Comunque vada ci aspettiamo ancora altre emozioni da lei.
“Un piccolo momento di felicità”, questo è il titolo dello spettacolare lavoro di Maya Chaimovich, la quale ci ha ormai abituate a esplosioni di colore di efficacia estrema, indice di un gusto raffinatissimo e di una sensibilità fuori dal comune.
Di notevole impatto estetico questa immagine del mare visto come un mondo dove si celano pericoli invisibili e si deve combattere contro altrettanti pericoli ben visibili.
Da millenni il mare costituisce per l’uomo un universo alternativo, col quale ha un rapporto controverso. Esso è, a seconda dei casi, fonte di cibo, via percorribile, padre di sali, difesa naturale e oggetto di riflessione (fisica e metafisica). Però il mare può essere anche assassino di uomini, barriera invalicabile, distruttore di mondi, deserto d’acqua e, per secoli, dimora delle “cose” più spaventose che la mente umana poteva immaginare (almeno fino all’arrivo degli alieni).
Nel relativamente tranquillo Mar Mediterraneo, e più precisamente negli stretti punti di passaggio, si potevano incontrare le “rupi erranti”, scogli che si innalzavano improvvisamente e si spostavano per impedire la navigazione o per creare onde altissime in grado di far affondare ogni imbarcazione.
Il biblico “Leviatano” era raccontato come una sorta di gigantesco serpente tortuoso dalle scaglie impenetrabili che sputa fuoco dalle fauci.
Più raffinata e sottilmente misogina era l’immagine omerica delle “Sirene”, le quali attiravano con irresistibili canti i naviganti per farli naufragare sugli scogli. Tanto che si sappia, all’epoca non si trattava di un essere mezza donna e mezzo pesce, bensì era rappresentata come una figura femminile con ali e coda d’uccello.
Persino la terribile Medusa che pietrificava col suo sguardo era sorta dal mare.
Quei mostri marini erano figli di un pélagos, uno specchio d’acqua relativamente conoscibile e navigabile, ma ben più terrificanti erano quelli che si immaginava dimorassero nelle oscure profondità del póntos, il mare aperto che si apre oltre le Colonne d’Ercole.
Nel XVII secolo si diffuse tra i marinai che attraversavano gli oceani la leggenda del “Kraken“, una piovra gigantesca dotata di tentacoli in grado di stritolare una nave, e sono proprio quelli che Kestrel Michaud fa intravedere giusto sotto la superficie liquida.
Un discorso particolare lo merita questa improbabile imbarcazione che sta cercando di schivare l’abbraccio mortale del mostro. Si tratta di una rappresentazione in stile “Steampunk” di un piccolo sommergibile. Tale definizione è nata degli anni ’80 ispirandosi alla narrativa fantastica o fantascientifica del XIX secolo.
“Steam” in inglese sta per vapore, il più moderno mezzo di produzione di energia ai tempi di Jules Verne (tanto per fare un nome), ed era logico che si fantasticasse di macchine stupefacenti ancora da inventare sempre mosse dal vapore.
Il cinema moderno ha pescato a piene mani da quella letteratura, realizzando dei film di grande godibilità e di un particolare valore estetico, e se vi serve qualche esempio andatevi a guardare “La leggenda degli uomini straordinari”, oppure “Brazil”, storie inverosimili, eppure trattate come possibili.
Posso immaginare che lo Steampunk appassioni Kestrel Michaud in modo particolare.
Bene, direi che, per ora, potrebbe bastare, altrimenti questo post non lo finisco più.
Come per le altre edizioni, potrete trovare qualche altra immagine che non ho riportato qui nel mio album del 2022 presente in Flickr.
Sempre sulla piattaforma Flickr sono disponibili le immagini scattate nel 2021, nel 2019, dal 2013 fino al 2018 e quelle fino al 2011.
Per chi ha ancora qualche minuto da perdere, qui sotto ho inserito un breve filmato girato durante la mia escursione austriaca-boema-morava. Si tratta di una sinossi visuale del viaggio, ovvero solo una carrellata di una minima frazione delle opere (d’arte e dell’ingegno) che ho ammirato nei musei di Vienna e Praga, e per la precisione di quelli che ancora non avevo visitato finora. Credetemi, ce ne sono di cose da vedere da consumare un paio di scarpe, e se avessimo voluto riportare tutto sarebbe uscito fuori un video più lungo de “La corazzata Potëmkin”. Non servirebbe aggiungere che anche il PPM2022 è presente nel filmato.
Pingback: One More Time | My3Place
Hello from Vienna, Austria! Thanks for sharing your photos and the gorgeous video on yt. Keep quilting! Best regards Elisabeth
Dear Elisabeth, see you in Gmünd in Kärnten (we hope so…).
Quilty Regards,
Rossana