Mi sbagliavo.
Sai che novità, direte voi.
E invece la novità c’è, ossia che mai sono stata così felice di sbagliarmi.
Penso che da un po’ abbiate notato nei miei post un’ombra di stanchezza, si direbbe un larvato pessimismo nei riguardi del patchwork, come se avessi smesso di aspettare che sull’estremo confin del mare si levi quel fil di fumo, colorato s’intende, e che si stessero dissolvendo quelle illusioni alle quali mi sono sempre aggrappata fin da quando ho iniziato a tagliare e ricucire dei frammenti di stoffa.
Vi confesso che, nel passato, c’è chi ha fatto del suo peggio per demoralizzarmi, ciò nonostante tutto ho sopportato e tutto potevo sopportare ancora, ma ultimamente non riuscivo a reggere lo sconforto causato dalla sensazione che fossi testimone di un tramonto, il ripiegamento del patchwork su sé stesso, la riproposizione di temi già visti, le fughe in direzione del puro effetto, le esibizioni velleitarie nelle quali mancavano sia l’arte che la tecnica, e, nota dolente, l’esiguità di un promettente ricambio generazionale.
Le prime crepe si erano formate già qualche anno fa, quando erano troppo frequenti dei déjà vu, l’impressione di minestra riscaldata tanto per capirci, e a ricevere apprezzamenti e premi erano i soliti nomi noti.
Ah, che madornale errore il mio! Ero cieca, ma ora vedo.
Chi ha fatto il miracolo?
Un solo nome: 25° Carrefour Européen du Patchwork.
Ripensandoci ora, devo tutto a una fortunata serie di circostanze.
Sarei anche potuta non andarci in Francia, ma è stato determinante il fatto che una mia opera è stata ammessa al concorso “L’opposition”. Massima è stata la mia soddisfazione, non posso negarlo, però il concorso precedente al quale avevo partecipato, ossia “La magie de la couleur”, non mi risultò particolarmente entusiasmante in quanto a originalità e qualità delle opere esposte.
Anche per quel che riguarda il metro di giudizio ebbi all’epoca molto da ridire. Non che allora mi fossi aspettata di ricevere un premio, come pure non me ne attendevo in questa edizione, sono ben cosciente dei miei limiti, ma talvolta ho dovuto constatare che opere ammirevoli non ottengono il giusto riconoscimento secondo criteri che mi sfuggono (o che preferisco non approfondire dato che sono già abbastanza maliziosa di mio).
A dirla tutta, quando in primavera inviai la mia iscrizione, nemmeno ci pensavo al concorso. Il quilt che avevo realizzato era la trasposizione su stoffa di un’idea che mi girava per capo già da qualche anno, e per la quale non avevo ancora trovato tempo e coraggio per dare forma visibile. Insomma, per farla breve, trovai un titolo che si adattasse al tema del concorso e spedii le foto in Francia, senza troppe speranze confesso. E invece…
Ebbi fortuna anche quando, appena ricevuta la bella notizia, la mia agenzia di viaggi andò alla caccia di una sistemazione low-cost in Alsazia e riuscì a scovare un appartamentino a Sélestat, giusto in centro. Per chi non la conoscesse già, aggiungo che lì fermano tutti i treni in direzione Strasbourg o Mulhouse, che da lì parte il bus per la Val d’Argent, e inoltre che quella cittadina non manca di una certa bellezza.
Non meno favorevole è stata la situazione meteorologica, la quale c’ha regalato quattro giorni di bel tempo, tanto che pareva di essere ancora in estate.
Sopra a tutto quanto però ha giovato l’elevato livello delle opere che ho potuto ammirare e la scoperta dell’affacciarsi su questo variopinto palcoscenico di giovani artiste, alcune dotate di eccezionale inventiva e ammirevole coraggio.
Aggiungo solamente che, avendo fin da subito deciso che non avrei visto “tutto a tutti i costi”, mi sono concessa più tempo per le esposizioni che incontravano i miei gusti, e perciò mi sono limitata a una scorsa veloce alle altre. In fondo, come dicono gli americani, “non tutti i gusti sono alla vaniglia”.
E allora, si parte!
Essendo, come sempre, questo viaggio all’insegna del low-cost, la scelta di un bus notturno era pressoché obbligata e, arrivata a Strasburgo, ne ho approfittato per un giretto turistico della città, incocciando così in una merceria “impossibile”, ossia uno di quei posti dove la realtà di ciò che è disponibile supera la fantasia di chi si trova a passare per caso davanti a quella vetrina.
C’ho lasciato gli occhi lì, e anche qualche decina di Euro per dei bottoncini decorati da favola, ma era impossibile resistere alla tentazione.
Vi devo confessare che quella sera stessa, quando un trenino locale ci scaricò a Sélestat, ero già nella migliore predisposizione d’animo per poter apprezzare ciò che avrei visto nei giorni seguenti in Val d’Argent e, anche se il fisico era ragionevolmente provato, l’eccitazione del viaggio mi teneva su come una molla.
Prima di parlarvi (e mostrarvi) del patchwork vorrei offrirvi alcune immagini che in parte spiegano perché questa edizione del Carrefour Européen du Patchwork mi è piaciuta tantissimo.
Sarete in parte d’accordo sul fatto che chi va per mostre, a meno che non abbia un laboratorio o un’attività similare, generalmente non presta troppa attenzione al corollario commerciale. Qualcosa da comprare, volendo, si trova sempre, ma dopo un po’ tutta quella merce esposta viene a noia e non si vede l’ora di andare ad ammirare le esposizioni. Invece a Sainte-Marie-aux-Mines c’era molto di più, come per esempio una valanga di originali stoffe per vestiti, oppure un’esposizione di noše slovene (vestiti tradizionali), e altro ancora.
Ora parliamo un po’ delle mostre. Quest’anno ho deciso derogare un po’ dai miei doveri di cronista, e mi scuserete se mi soffermerò di più sui lavori che mi sono veramente piaciuti. Tutto sommato, dopo averne viste e raccontate di esposizioni, mi concedo questo peccato di vanità obbligandovi a sottostare al mio gusto personale.
A ogni buon conto ho realizzato anche un breve filmato nel quale è compresa una panoramica veloce di quel che c’era in Val d’Argent (e non solo…), e altre immagini le potrete sempre trovare nel mio album di Flickr.
Mi va di iniziare con Galla, una quilter russa che però da quindici anni risiede in Francia. In realtà il termine “quilter” è riduttivo in quanto i suoi interessi artistici si manifestano anche nella pittura, nella decorazione di interni, nella fotografia, nel design di abbigliamento e nello spettacolo.
Le antiche radici russe hanno trovato terreno fertile in Francia, e ne è sorto un particolare enseble che non trova uguali ne di qua e ne di là del Dnepr.
Il titolo è quanto mai significativo: “Enciclopedia delle donne inesistenti”. Galla infatti non intende raffigurare la donna in carne e ossa, bensì offrire una rappresentazione emblematica di come la figura femminile possa racchiudere un concetto altrimenti sfuggente.
Sono la Dea, la musa, la femme fatale, la figura materna, la femminile Luna, e altre ancora, senza dimenticare quella dalla quale tutti dipendiamo: Madre Terra.
Anche se sono inesistenti, nel senso che non hanno un riscontro anagrafico verificabile e condiviso, è impossibile immaginare una loro assenza nella nostra realtà.
Sapiente uso del colore e delle forme per comporre delle immagini di grande forza emozionale, ma senza rinunciare all’eleganza del tratto femminile. Se mi è concesso di pronunciarmi, dieci e lode.
DAMSS, ossia Daniela Arnoldi e Marco Sarzi-Sartori, due artisti che hanno unito la loro immaginazione e le loro rispettive esperienze al fine di realizzare delle opere Fiber Art assolutamente uniche nel loro genere.
In Francia hanno esposto tre grandi lavori della serie “Città future”. Milano, Roma, Venezia, come saranno nell’anno 3000? Ognuna di queste ipotetiche città è stata rappresentata su un pannello di dieci metri per quattro, utilizzando, nel pieno spirito patchwork, materiali tessili di riciclo.
Posso assicurarvi che l’effetto era notevole, e per non rischiare di offrirvi una rappresentazione modesta o infedele di quelle opere ho preferito inserire nel post le immagini ricavate dal sito DAMSS, al quale vi rimando per altre notizie interessanti.
Eppur si muove…
Sì, finalmente qualcosa si muove, finalmente una boccata d’aria fresca!
La giovanissima Estelle Lacaussague m’ha, di fatto, sollevata da quel peso che da un po’ mi opprimeva, quella sensazione di cui parlavo all’inizio di questo post, ossia che da qualche anno stessi assistendo all’ennesimo remake di esperienze già vissute, dove la massima aspirazione era ricalcare i successi delle quilter del passato, oppure, per contrasto, mi capitava di osservare con sospetto le estrose manifestazioni di pura vanità.
Invece Estelle, senza colori gridati, senza astruse composizioni, senza leziosi orpelli, ma con la semplicità della forma, ha realizzato delle opere d’arte che, secondo me, tracciano un confine. Niente di piacioso, anzi, appare evidente che lei non va alla ricerca di un applauso, tutt’altro, Estelle pone degli interrogativi ai quali chi osserva deve adeguarsi e, se può, trovare una chiave di lettura.
La modesta qualità delle foto non riesce a riprodurre tutti i dettagli, la diversa trama dei supporti, la testurizzazione, il ricamo, e tutte le gradazioni cromatiche impresse. Dovrete accontentarvi perciò di quello che riuscite a vedere e, ça va sans dire, fidarvi di me.
Dalla Cechia con furore, ecco due artiste che fanno parte del gruppo Art Quilt Harbour, un’associazione molto attiva per promozione del patchwork nella Repubblica Ceca.
Avendo seguito nel corso di un decennio il percorso artistico di quasi tutte le componenti di quel gruppo, non posso che essere compiaciuta del fatto che fin dalle prime edizioni del Prague Patchwork Meeting mi ero sbilanciata nel predire un loro sicuro successo. E infatti oggi eccole qua, a buon diritto nell’Olimpo europeo del patchwork.
Se pensate che Klimt sia solo “Ritratto di Adele Bloch-Bauer” o “Il Bacio” dovreste fare una scappata al MAK, il Museo di Arti Applicate di Vienna, oppure alla Österreichische Galerie Belvedere, sempre a Vienna.
Eva Brabcová dev’essere stata sicuramente colpita dai quadri “impressionisti” di Klimt, e dal fatto che in alcune opere si avvertisse l’interesse del pittore per lo stile di Van Gogh.
Le opere di Helena Fikejzová sono sempre vagamente inquietanti. Un tempo dominavano dei colori più accesi, ora invece lei predilige le tonalità più sfumate, il grigi, i beige, le terre, ma non per questo ne risente l’impatto estetico.
È il momento che torni al motivo principale del mio viaggio in Francia.
Certo, le mostre sono interessanti, vero, l’Alsazia è bella da visitare, giusto, una gita, se fatta con calma, è sempre uno spasso, però, eh però, io sono andata su per il concorso “L’opposition”, anche e soprattutto perché il mio quilt era stato accettato.
Wow!
Pur essendo ben consapevole che non avevo nessuna possibilità di essere premiata, già il fatto che il mio lavoro fosse stato giudicato degno di essere esposto assieme a quelli di artiste di altissimo livello era per me motivo di grande soddisfazione, la riprova che, tutto sommato, non sono un’incapace totale.
Come sempre mi capita, anche stavolta alcune scelte della giuria mi hanno lasciato perplessa, ma di certo il primo premio assegnato a quest’opera di Shin-He Chin era strameritato. Guardate e stupite.
Gravity and Grace è una raccolta di aforismi di Simone Weil.
Ispirandosi a quelli Shin-He Chin ne ha dato una rappresentazione cromatica nella quale due forze antitetiche si contrappongono, e comunque sono costrette a coesistere, in natura e nell’animo umano.
L’immagine richiama subito alla mente una finestra, sulla quale infinite gocce di pioggia battono rendendo incerta la visione, ossia la comprensione di ciò che sta oltre a quel vetro.
Forse Shin-He Chin non lo sa, ma un altro artista ha cercato dar forma a questo contrasto tra la gravità, ciò che ci abbassa, e la grazia, ciò che ci eleva. Si tratta di El Anatsui, nativo del Ghana. Anche lui realizza dei patchwork, anche si tratta di grandi installazioni composte di volta in volta a ogni esposizione, e che pur mantenendo gli elementi compositivi risultano ogni volta differenti (qui un video).
Coi nostri patchwork tessili che ben conosciamo egli ne condivide la filosofia, ossia il recupero e la ricomposizione. El Anatasui compone i suoi arazzi utilizzando i più diversi materiali di scarto: coperchi di latta, tappi per bottiglie di liquori o di latte, lastre da stampa, pezzi di alluminio, il tutto cucito con vari fili di rame. In quegli ensemble ogni materiale viene riciclato, come per esempio i tappi di una distilleria presente nella sua città natale, Anyako.
Sia Shin-He Chin che El Anatasui ci avvertono dell’inesplicabilità della trama che unisce e comprende ciò che è differente, e alla quale ci dobbiamo abbandonare con la convinzione che ognuna di noi è una parte di un tutto, e comunque mai una parte insignificante.
Ogni diseguaglianza è destinata a seguire una sua evoluzione. Può appianarsi, trovare un punto d’equilibrio, oppure può accentuare le sue disparità e creare una separazione tra i due fattori.
Ciò si nota nella conformazione di alcune città, nelle quali, attorno a un centro ricco e ben servito, sorgono delle periferie più o meno degradate. Che si chiamino borgate, banlieue, sobborghi, suburbi, hinterland, hanno lo stesso tratto comune: la separatezza.
Invece di moderne città policentriche e inclusive, si vanno affermando delle strutture redditocentriche, con dei confini ben precisi per attraversare i quali non viene controllato un passaporto, bensì il conto corrente.
È inevitabile allora che invidia, paura, astio, egoismo e rancore formino la perfetta miscela combustibile che infiamma gli animi e rende impossibile una civile convivenza.
An Eunjoo ha splendidamente colto tale forma di segregazione (in)civile, con le case della città alta in pieno sole, ricche di colori e di spazi, mentre nella città bassa degli anonimi palazzoni si disputano quel poco che resta di luce e di suolo, e lei si augura che tali conflitti trovino infine uno sbocco non violento e che si volgano verso una pacifica coesistenza.
Purtroppo per lei, e anche per tutte noi, niente di quel che sento e che vedo mi dà adito a molte speranze in tal senso, e anzi noto che, causa la spregiudicatezza di qualche politico in cerca di facile consenso, si stia andando verso una pericolosa estremizzazione delle tensioni, verso l’intolleranza preconcetta, e verso alla formazione di circoli sempre più ristretti e apparentemente omogenei.
Mi viene allora buona la gianografia n° 314 dal libro “365 uova di giornata”.
TSUNAMI
Ognuno di noi è uno sperduto naufrago su un’isoletta in mezzo all’oceano, tra gli abissi tenebrosi della paura e le infide correnti del sospetto. Se non saremo disposti a mitigare i nostri pregiudizi si alzerà la marea e annegheremo tutti.
Basta, non voglio rattristarvi oltre, e allora vi regalo questa vecchia canzone di Billy Joel che si intitola, guardacaso, “Uptown Girl”.
Il vino è uno dei soggetti preferiti da Montserrat Forcadell, e come non potrebbe esserlo dato che lei arriva da Cambrils, cittadina catalana nota oltre che per le meravigliose spiagge anche per i suoi gradevolissimi vini?
Già nel 2015 ebbi occasione di ammirare a Sitges una sua opera intitolata “La gota”, e anche stavolta lei non ha mancato di stupire con una rappresentazione un po’ surreale, direi quasi onirica dell’opposizione (e l’unione) di mare e terra, di acqua e vino, di realtà e riflesso, ben rappresentate da un gabbiano e un bicchiere renano.
Fuoco e acqua, due opposti, come sono l’odio e l’amore, eppure costretti a coesistere.
Nella teoria di Empedocle, quattro sono le radici all’origine dell’universo, fuoco, acqua, aria, terra, tutte comprese equamente in uno sfero dominato dall’Amore.
Ma perché ci sia vita è necessaria una tensione, ed è l’Odio che combinando le quattro radici genera quella contesa che sta alla base della vita. Quando l’Odio prende il sopravvento e crea un suo sfero, tocca all’Amore combattere per ribaltare la situazione.
Nella fase intermedia, quando nessuno dei due contendenti è dominante, si svolge la vita umana, nella quale coesistono tutte le sue contraddizioni, come appunto l’acqua e il fuoco.
E se pensate che ciò non sia del tutto vero riflettete sul fatto che il corpo umano è composto per il 70% di acqua, e che ogni boccata di ossigeno è indispensabile per alimentare i centomila miliardi di microscopici fuochi che generano la nostra temperatura corporea.
La fortuna arride agli audaci, almeno così si dice. Verena Giavelli ha voluto osare ed è stata premiata, ha provato ad aggiungere ai suoi lavori “turbinanti” un trattamento sperimentale alla base tessile, testurizzandoli, creando spettacolari effetti in rilievo e in gradazione di tinta, tanto da farli apparire come se fossero lavorati al cesello.
Molto suggestiva questa inquadratura proposta da Tatiana Varshavskaya, dà il senso della profondità e ci si trova volentieri a contemplare lo stesso paesaggio che sta osservando quella donna.
Suppongo che oltre la fine realizzazione e gli effetti di luce, sia stata premiata la scelta compositiva dell’immagine. Nulla da eccepire, magari però, la prossima volta, sarebbe bello vedere anche un’inquadratura diversa, in quanto questa è troppo simile a un’opera premiata al concorso del 2017 (immagine da opquilt.com).
Ecco qui sotto un’opera che, secondo me, avrebbe dovuto ricevere maggior attenzione da parte della giuria.
Gyeongju, mille anni fa, era la capitale del Regno di Silla, nell’attuale Corea del Sud.
Raggiungibile in sole 3 ore di treno da Seoul, è una meta turistica molto ricercata per i suoi templi e i numerosi reperti storici, tanto da essere definita “un museo a cielo aperto”.
Oltre che ai vantaggi derivanti dal potere politico e dalla potenza economica, la città di Gyeongju deve al buddismo il fiorire delle arti che la abbellirono come nessun’altra città della penisola, e ancora oggi i dintorni della città, non urbanizzati a tappeto come a Seoul e a Busan, sono motivo di riflessione esistenziale per coloro che seguono i percorsi anticamente studiati per la ricerca dell’illuminazione.
Un sabato, mentre percorreva la strada di casa a Gyeongju, In Sun Oh ricevette dalla visione del tramonto una confortante sensazione di pace. Sappiamo fin troppo bene come le vicende della vita si oppongono con accanimento alla nostra serenità, eppure a volte basta sollevare lo sguardo verso un cielo per riuscire a intravedere il riflesso di quel che cerchiamo dentro di noi. In Sun Oh ha cercato di riportare quell’attimo di serenità su stoffa, per riuscire a trasmetterlo anche a noi, un contagio quanto mai benefico.
Quest’anno anche la vicina (almeno per me) Slovenia ha bussato con successo alla porta dell’Università del Patchwork in Europa.
Da Ljubljana ecco l’opera di Mateja Dimnik intitolata “Fortepiano”.
Prima del pianoforte venne il fortepiano. In questo caso già il nome rappresenta un’opposizione, e aggiungiamoci pure che, diversamente dal pianoforte moderno, le note del fortepiano non si confondono sovrapponendosi, entrano, per così dire, in competizione e in accordo. Quante opposizioni!
Mateja Dimnik è una “creativa”, perciò ha inteso rappresentare il contrasto nel dettaglio e nell’insieme partendo da un elementare conflitto, ossia quello tra la luce e il buio, opposti come il giorno e la notte, la gioia e la tristezza, e rumore e il silenzio, e in fin dei conti l’essere e il non essere.
Per questa ottenere questa sorta di “frattale” monocromatico l’artista ha semplificato la geometria riducendola all’essenziale, ossia a dei quadrilateri dove il il bianco si contrappone al nero (della stoffa e delle ombre create dalla quiltatura lineare), e in questo dualismo l’uno giustifica la presenza dell’altro.
“Vanità… Vanità… Tutto è vanità.” Nel libro “Il pranzo di Babette” di Karen Blixen, così si esprime il generale Loewenhielm mentre si aggiusta divisa e decorazioni guardandosi allo specchio.
Ma io non sono né una scrittrice e né un generale, perciò mi siano concessi cinque minuti di vanità, non penso di chiedervi troppo…
Eccola qui l’opera che ho realizzato per il concorso, e della quale vado giustamente orgogliosa.
Il gioco degli scacchi sarebbe incomprensibile senza l’opposizione tra il bianco e il nero, però, a differenza di quello e altri giochi, nella vita non è sempre ammessa la patta.
Succede perciò che un contrasto abbia termine solamente dopo la sconfitta di uno dei due contendenti, un definitivo scacco matto. Eppure niente talvolta affascina di più di un’accesa competizione, che sia tra due posizioni politiche, tra due campioni dello sport, tra due teorie scientifiche, tra due stili artistici, magari anche tra due galli che si disputano il dominio del pollaio, e può capitare che anche noi talvolta si brami di scendere nell’arena.
Anche se dalla giuria non ho ricevuto nessun premio, quello più prezioso me lo sono conferito da me, ossia la soddisfazione di vedere riuscito un lavoro interamente immaginato da me fin dalla prima bozza del soggetto, e poi realizzato mediante soluzioni che mi son dovuta inventare lì per lì.
Devo ringraziare l’organizzazione del Carrefour Européen du Patchwork che ha posizionato magnificamente il mio lavoro, il primo che si notava entrando, e comunque ho avuto modo di registrare, in incognito s’intende, parecchi commenti favorevoli di chi si trovava a osservarlo.
E se ancora non bastasse, eccomi citata anche in un sito web, il “textile art magazine” di Berlino, che ha speso qualche parola di approvazione nei riguardi del mio patchwork.
Non sono invisibile!
Delle altre opere in concorso, premiate e non, potete trovare le foto nel mio album di Flickr. Qui ho inserito quelle che mi hanno veramente colpito per originalità e tecnica, e se poi qualcuna non fosse d’accordo con il mio metro di giudizio, pazienza, ormai me ne sono fatta una ragione.
Come ogni edizione, non mancavano i lavori “monumentali”.
Ecco una rivisitazione di un quilt tradizionale, un’opera di quasi due metri e mezzo di lato realizzata da Deb King.
Qualora foste tentate di cimentarvi in queste avventure, potreste dare un’occhiata qui.
Parlando d’antico, non mancava un’esposizione di grandi quilt amish curata da Jaques Légeret, dei quali ho già trattato in un post dedicato all’edizione 2015 intitolato “Ten Years After“.
Siccome mi va di saltare di palo in frasca, ecco adesso alcune opere molto moderne, e per verti versi molto, molto significative.
Patchwork + collage + acquerello = Peggy Brown.
La carta non era più base sufficiente per esprimere la sua creatività, così Peggy Brown ha decisto di trasferire la sua pittura sulla stoffa, non come un dipinto nel quale il colore e la forma predominano, ma nel patchwork, dove quelli assommano il loro effetto a quelli creati dall’unione di stoffe e forme differenti
Magari non rispetterà tutti i crismi del patchwork, ma non si può negare che il risultato finale abbia un certo fascino.
Ogni scrittore deve fare i conti col sesso. Cosa racconti e come lo affronti dipende dallo stile, dallo spirito, dallo scopo e dai tabù dei tempi.
Una quilter può anche raccontare con la stoffa, e pertanto Amy Meisser non ha voluto sottrarsi a questo dovere.
Così lei descrive il suo lavoro: “Fatigue Threshold” (Limite di fatica) riguarda il sesso. Si tratta di abusi. Si tratta di un momento. Si tratta di una vita. Si tratta di una donna. Riguarda tutte le donne. Riguarda la monotonia di compiti e oneri e il regno domestico e l’esaurimento e la nascita e la vita e la disperazione e la lenta morte di qualcosa che una volta era prezioso.
Per capire meglio il senso di quest’opera è necessaria una pedestre spiegazione di cosa si intende per “limite di fatica”.
Ogni componente meccanico sottoposto a uno sforzo ripetuto nel tempo può essere soggetto a quella che secondo la terminologia tecnica viene definita “rottura per fatica”. Ciò avviene anche se il carico non è elevato, ossia se è perfettamente sopportabile dal materiale utilizzato. Però se quello sforzo viene ripetuto per un numero sufficiente di volte, basta che la sollecitazione trovi un singolo punto debole per riuscire a innescare il processo di rottura. Ciò può avvenire dopo giorni, mesi, anni, dipende dal carico applicato e dal numero di cicli di applicazione dello sforzo.
Tanto per darvi un esempio: la strage di Viareggio del 2009, nella quale un vagone cisterna pieno di GPL deragliò ed esplose uccidendo 32 persone, fu causato dal cedimento strutturale dell’asse derivante da una tipica rottura per fatica, anche se le lungaggini processuali tipicamente italiche non ne hanno ancora dichiarato l’ufficialità.
Ebbene, anche la donna è sottoposta a tanti stress ripetuti, sollecitazioni e pesi che in apparenza possono essere valutati come “sopportabili”, e per i quali dei legislatori arcaici e fondamentalisti ancora ne esaltano l’obbligatorietà, ma quei carichi sono prima o poi in grado di spezzare l’anima femminile con un logoramento tanto taciuto quanto irreversibile.
Impossibile passare davanti all’opera sottostante senza avvertirne la tensione emotiva. Il titolo è “Beyond the Concrete”, ossia “Oltre il calcestruzzo”, nel senso che è necessario superare e archiviare quanto prima la folle rincorsa alla cementificazione e distruzione del pianeta.
Però il sottotitolo adeguato sarebbe “Incazzatura”.
È incazzata la natura, lo è con noi per le nostre tecnologie invasive, per la nostra superbia, per i nostri genocidi ambientali, per la nostra violenza fine a sé stessa, per la nostra stolida cecità, per la mancanza di rispetto.
È incazzata però pure l’artista, per gli stessi motivi suppongo, ma anche per il fatto che Kathy Nida vorrebbe più tempo, più libertà, più serenità per dedicarsi all’arte, quando invece, sorte comune a molte quilter, il tempo e le forze le vengono rubate da faccende tanto prosaiche quanto deprimenti.
E già che parliamo di natura, ecco una serie di piccoli pannelli dell’esposizione “Hommage à la nature” del gruppo Grenzelos, costituito dalla svizzera Doris Leuenberger, dalla francese Sophie Maechler e dalla tedesca Monika Schiwy-Jessen.
Se pensate che si tratti di opere realizzate con tecniche innovative o sperimentali, vi state sbagliando di grosso. Pur utilizzando anche carta e vari sistemi di incollaggio, queste artiste si affidano a una tecnica decorativa quanto mai antica, ossia utilizzano direttamente i pigmenti rilasciati in natura.
Uno dei sistemi prevede che vengano stesi sul supporto (carta o tessuto) gli elementi vegetali che, tramite un bagno in aceto, rilasceranno il colore, e dopo aver bloccato il tutto si lascia che avvenga che il processo di trasferimento. Terminato queste fasi, si scalda il supporto per staccare gli elementi vegetali e per fissare i disegni ottenuti.
Oggi questa tecnica viene definita “Ecoprint”, ma è facile supporre che nella sua lunga storia abbia posseduto centinaia di nomi.
Come fossimo su un ottovolante, risaliamo ora verso dei lavori molto più appariscenti, vere e proprie feste del colore, …
… per ridiscendere tra le sfumature più fredde, molto più fredde, un vortice polare.
Generalmente Betty Bubsy predilige delle sfumature leggermente più calde, direi autunnali, ma è probabile abbia scelto di offrici un assaggio dei freddi inverni in montagna nel New Mexico, dato che quest’anno ha portato in Francia anche un altro quilt intitolato “The Ice Storm”.
Di sorpresa in sorpresa, ecco la Woringer che non t’aspetti. Anche lei ci porta in montagna, non in quella imponente e spettacolare del New Mexico, bensì tra i verdi paesaggi dei monti d’Arrée, in Finisterra, la punta più occidentale della Francia.
Tra quei colli suggestivi sono fiorite leggende celtiche e voci di stregoneria, e appunto lungo i sentieri che attraversano il grande parco naturale vicino al paese di Botmeur, possono apparire, a beneficio dei più piccoli, i korrigans, una sorta di folletti del bosco, gnomi, piccoli elfi, troll, che raccontano le storie del misterioso Bois Fers.
Già nel 2016 ebbi l’occasione di scoprire il patchwork israeliano, e più precisamente le opere di Orna Ron e di Rachel Covo.
Quest’anno ho scoperto un’altra artista proveniente da quel paese: Maya Chaimovich. Anche lei, come le sue due colleghe, ha presto abbandonato il patchwork tradizionale e ha preso la difficile strada dell’arte tessile, e per le sue opere utilizza ogni tipo di materiale che gli capita sottomano, ovviamente di recupero.
Questo patchwork rappresenta una storia, quella della famiglia del marito di Maya Chaimovich.
Suo suocero, originario di Łódź, in Polonia, non volle raccontare mai nulla della sua vita. Dopo la sua morte la famiglia andò alla ricerca di notizie, e lo fece attraverso i vecchi certificati di nascita, andando a ritroso di un secolo.
Maya Chaimovich ha riprodotto quei certificati su seta, e con quelli ha composto il patchwork della famiglia, sagomando e riunendo tutte le tessere a mano, con le forbici, ago e filo, niente colla fusibile o altre facili scappatoie.
I certificati di nascita sono riprodotti sulle tessere colorate, mentre su quelle in bianco e nero ci sono, oltre a vari testi, i disegni di un suo nipotino, un richiamo all’inscindibile collegamento tra le generazioni a dispetto dello spazio e del tempo.
Misung Chang è una bravissima quilter coreana, ed è particolarmente abile nel suggerire un senso di profondità dell’inquadratura.
Anche in questo caso, come in altre sue belle creazioni, lo sguardo tende a superare la barriera tessile per andare a perdersi chissà dove.
Una delle esposizioni che ho apprezzato di più è stata quella dedicata al Quilter’s Guild Russia, intitolata “Material Culture”.
La Russia è grande, è sempre stata grande, madre e matrigna, chiusa e sconfinata, nutrice e assassina, un paradosso geografico e antropologico, perciò le testimonianze materiali dei tanti popoli che l’hanno percorsa il lungo e in largo formano tutt’ora un bagaglio culturale molto vasto, a volte persino difficile da comprendere.
Per dare prova visibile di tutte quelle memorie ancestrali le quilter russe hanno utilizzato la stoffa, la materia appunto, e così il cerchio si è chiuso.
Chi non ha mai sentito parlare di Alessandro il Grande? La sua figura è leggendaria, sta alla base dell’ellenismo, ossia la cultura che per secoli trovò diffusione tra i popoli che andavano dalla Grecia fino alle rive dell’Indo.
Dalla leggenda è un passo arrivare alla mitologia, nel senso che qualche popolo asiatico ne vaticinava spesso la resurrezione, ed egli li avrebbe protetti dalle invasioni di altre popolazioni considerate “barbare”. Tra l’altro c’è chi afferma che, stando ad Alessandria d’Egitto la tomba di San Marco praticamente accando a quella di Alessandro, sia stata la salma del re macedone quella traslata a Venezia, e che come un tempo egli sconfisse i persiani, così il suo spirito protettore ha salvato la Serenissima dai turchi.
Per inciso, Alessandro Magno morì a 33 anni. Non so se questo vi ricorda qualcosa…
Due sono i versi di lettura dell’opera che vedete qui sopra. Da una parte abbiamo le figure mitologiche bene in evidenza, realizzate con una tecnica molto particolare, mentre dall’altra il disegno è in parte rovinato.
Si potrebbe pensare che si stia osservano una fase di restauro, il ripristino dell’antica bellezza di quell’antica opera.
Per contro potremmo immaginare che il tempo e la modernità stiano facendo sbiadire il mito, appiattendolo al ruolo di estetica rappresentazione.
Se osservate nel dettaglio il quilt sottostante potrete notare che in alcune zone sono presenti delle parole trapuntate, ovviamente in russo. Quando chiedemmo il significato di quelle frasi la curatrice fece tanto d’occhi, giacché in tre giorni di esposizione eravamo i primi a porle quella domanda. A questo punto mi verrebbe da pensare che la gente spesso guarda le opere senza vederle davvero.
Premessa.
San Nicola è stato ed è tuttora una figura molto importante nella religione ortodossa, quella prevalente in Russia, basti pensare che “Nicola” si chiamavano gli ultimi due Zar. Ciò deriva dal fatto che l’origine di questo santo non sta a Bari, bensì a Myra (oggi Demre), una cittadina situata sulla costa meridionale dell’attuale Turchia, in una regione che all’epoca veniva chiamata Licia, e della quale nel IV secolo San Nicola era vescovo.
A quanto si racconta, dopo la sua morte il corpo non subì l’affronto della decomposizione, e perciò iniziò la venerazione delle sue reliquie. Essendo all’epoca quella regione sotto il dominio bizantino, dopo il Grande Scisma che separò cattolici e ortodossi la venerazione di San Nicola superò quella verso i santi della chiesa di Roma.
Pochi decenni dopo, alcuni marinai baresi inizialmente diretti ad Antiochia sbarcarono a Myra, sfondarono il sepolcro della chiesa, ne trafugarono le reliquie e le trasportarono nella loro città, giustificando il loro gesto con il timore che quelle finissero nelle mani dei musulmani che stavano rapidamente avanzando. Da quel momento San Nicola di Myra divenne San Nicola di Bari, patrono dei marinai.
Galina Krasnikova ha evidentemente visitato entrambe le basiliche, quella di Myra del VIII secolo, attualmente in corso di restauro, e quella di Bari del XII secolo, quindi ha riportato su stoffa i motivi musivi di entrambi gli edifici e ha descritto la sua esperienza mediante quiltatura. Tra le altre cose che ha visto, ha notato sulle pareti dei simboli che assomigliavano ai semi del gioco delle carte. E in effetti si tratta di simboli cristiani: il cuore è quello del Salvatore, la picca è la punta di lancia che lo ha trafitto, e i fiori sono le teste dei chiodi della croce. A quanto lei scrive, nel XIII secolo un blasfemo burlone decise di utilizzarli per il gioco delle carte, come se fosse una ripicca verso la Chiesa che condannava il gioco d’azzardo.
Irina Voronina.
Chi segue questo blog sa quanto io ami le opere di questa artista russa. Mi si potrà obiettare che al mondo ci sono quilter più brave, più precise, più produttive, ma io apprezzo di lei, oltre alla tecnica, il suo percorso artistico, la sua evoluzione che le ha evitato lo stucchevole ripetersi nel confortevole successo.
Se non ci credete andate sul suo sito web e date un’occhiata ai suoi lavori. Tra i primi e questi ultimi c’è una tale distanza che solamente la sua inesauribile creatività ha saputo colmare.
Poco sopra si parlava di basiliche, e questo labirinto assomiglia abbastanza a uno di quelli che si trovano sul pavimento del nartece delle chiese gotiche (per chi non lo sapesse si tratta dello spazio tra l’ingresso principale e il corso delle navate). L’ottagono, onnipresente in chiesa, rappresenta la trasformazione e la rinascita in Cristo, e il penitente doveva percorrerne il tracciato a piedi scalzi (o in ginocchio), e ciò facendo quell’atto era equivalente a un pellegrinaggio fino a Gerusalemme.
In realtà così non è, oppure, se questa fosse stata l’intenzione, il disegno di Irina Voronina non è “a norma”, in quanto lungo il percorso si percorrevano cinque curve, un numero androgino dato dalla somma del numero maschile tre e del numero femminile due (la religione è sempre complicata…).
Guardacaso, proprio nella Église Sainte-Foy di Sélestat abbiamo fotografato questo labirinto.
Più laico ma non per questo meno famoso è il labirinto di Cnosso, nell’isola di Creta.
La leggenda racconta che re Minosse fece rinchiudere al suo interno il Minotauro, un mostro mezzo uomo e mezzo toro che si cibava di carne umana. Solamente l’eroe greco Teseo, aiutato da Arianna che gli diede un filo per non smarrirsi nel labirinto, riuscì a uccidere il Minotaturo.
Io non so dove ci porta questo labirinto di colori, sembra che affondi e che nel contempo ci attiri al suo interno.
L’ammirazione sconfinata mi perde in quei meandri, e neppure il filo di Arianna mi salverebbe, giacché al centro del labirinto qualcosa di impossibile e tremendo mi attende, si tratta della mostruosa bravura di Irina Voronina.
Ecco, avrei da mostrarvi altre decine di lavori, ma veramente rischierei di ripetermi, e in buona sostanza di annoiarvi (se più non l’ho già fatto).
Come ho scritto sopra, nel mio album Flickr (lastoffagiusta2019) trovate tutte le foto che abbiamo scattato in Val d’Argent, e vi prego di perdonarmi se magari in questo post non sono stata esaustiva come nelle occasioni precedenti. So che ormai ci sono vari di blog e web-zine dove andare a pescare vari resoconti del Carrefour Européen du Patchwork, pertanto ritengo di offrire il mio personale punto di vista, lasciando a voi il compito di valutarne l’accuratezza e la veridicità. Vi ricordo ancora una volta che non posso e non voglio essere imparziale, ci sono cose che mi piacciono e altre che mi piacciono meno, e che ormai mi sono abituata a sedermi dalla parte del torto, perciò portate pazienza.
Ora, se non vi dispiace, vorrei offrirvi alcune immagini dell’Alsazia, di qualche posticino che ho avuto la fortuna di scoprire, sempre grazie alla mia ineffabile agenzia di viaggi. Perché non si vive di solo patchwork.
Ecco qui un breve filmato della mia avventura alsaziana (e se avete una connessione abbastanza veloce potete vederlo anche in HD a 1080p).
I miei album di Flickr sono i seguenti:
lastoffagiusta2013 (per le immagini fino al 2018)
lastoffagiusta2019 (per le immagini del 2019).
Ringraziamenti
-
La mia agenzia di viaggi, ancora una volta, sperabilmente non l’ultima.
-
Flixbus, per il servizio impeccabile.
-
Giove Pluvio, per non essersi presentato al lavoro.
-
La Brasserie “Le Central” di Sélestat, per l’insuperabile Edelweiss.
-
Il Carrefour Européen du Patchwork, per la perfetta organizzazione.
-
Il “Tinta Café” di Strasburgo, per l’ambiente accogliente e l’ottimo caffè.
-
Marija Pudane, per la traduzione dal russo.
-
Le vigne di Riquewihr, per il particolare moscato.
-
Qualcuna delle visitatrici, per aver speso parole di ammirazione per il mio quilt.
-
Monsieur Thierry, per il confortevole appartamentino in un edificio del ‘700.
-
Il tempo, per non essere passato troppo velocemente.
-
La Dea Bendata, per essere rimasta sempre al nostro fianco.
L’arte del saper fare non è da tutti ,ma apprezzare capolavori dovrebbe essere di tutti ,impeccabile nello descrivere e molto bello viaggiare anche da qui al di là di un vetro del pc che ci porta in un mondo retrò per certi versi e per certi futuribili ,sempre e ancora complimenti .
Un saluto Manola
Grazie Manola.
In effetti la chiave di lettura di tutto quel fare, andare, vedere, raccontare sta nell’ultima inquadratura del filmato: carpe diem.
Buon anno.
Pingback: Val d’Argent 2019 |
Thank you for such nice words and showing my Roses for Klimt to the world. Hope, you will come to the PPM 2020 in April!
Hi,
that quilt was nice to see it and it was nice to talk about it.
You are often present in my blog (from 2011). Take a look here:
Primavera di Praga – https://www.lastoffagiusta.it/wordpress/?p=35
E mo’ basta – https://www.lastoffagiusta.it/wordpress/?p=1739
Lascia o raddoppia? – https://www.lastoffagiusta.it/wordpress/?p=2851
Malanni di stagione – https://www.lastoffagiusta.it/wordpress/?p=3628
By the way, I already have train tickets for Prague, and one of my quilts will be there exposed
See You
Rossana