Con il solito, direi quasi proverbiale ritardo, sono riuscita a stendere le mie impressioni sull’ultima mostra di Verona Tessile.
Purtroppo la realizzazione del post precedente sul PPM2019 mi ha preso abbastanza tempo, e inoltre vi confesso che sentivo anche la necessità di riflettere prima di esprimere una mia opinione sulla mostra di Verona, per vedere la quale è sicuramente valsa la pena di svegliarsi all’alba per arrivarci in treno, ma che mi ha dato di che discutere durante il viaggio di ritorno a sera inoltrata.
Diciamo che alcuni aspetti hanno risvegliato il mio spirito critico, quell’indocile bestiaccia che sempre mi sussurra commenti velenosi con lo scopo di rovinarmi i momenti belli della vita e di procurami la meritata fama di rompiscatole.
Però tutto ciò a voi non interessa, perché siete qui per vedere delle creazioni tessili, e pertanto mi limiterò a qualche osservazione maliziosa, giusto un pizzico di sale e pepe qua e là.
Quest’anno molte opere hanno potuto godere dei vasti spazi espositivi del palazzo della Gran Guardia, nella centralissima Piazza Bra.
Al piano loggia, il salone (bouvette) era dedicato agli esagoni, una serie di opere dedicate a questa figura geometrica, tutte realizzate dall’associazione Ad Maiora. Presumo che lo scopo di questa esposizione fosse quello di dimostrare che si può tranquillamente uscire dal giardino della nonna per andare incontro a nuovi e inesplorati orizzonti.
Paola Bellotti – Esagoni controcorrente
Niente male questo lavoro “controcorrente” di Paola Bellotti, da osservare rigorosamente in “controluce”. La scelta della stoffa e delle sovrapposizioni si sposa perfettamente con un batting leggero e una quiltatura variata nel tema e nella densità. Brava, 7+
Luisa Chesini – Caleidoscopio
Invece questa bella (e paziente) opera di Luisa Chesini soffriva un po’ il suo posizionamento in controluce. Comunque abbiamo cercato di fare del nostro meglio affinché la foto le renda giustizia.
Al piano intermedio, la sala polifunzionale era dedicata alla mostra “Finestre migranti”.
Ai temi etici e sociali connessi con la migrazione, la disperazione, la speranza, il dramma, si sovrappone il tema estetico, ossia il motivo “Cathedral Window“. Una scelta non casuale e non dettata da esigenze puramente artistiche, in quanto questo particolare e antico motivo nasce in Asia, e solo negli anni ’30 inizia a trovare una capillare diffusione nell’Illinois. Quindi si può ben dire che si tratta anch’esso di un migrante, con la differenza che è stato subito accettato e mai ci si sognerebbe di negargli la cittadinanza nel mondo patchwork, come invece troppo spesso avviene per le persone migranti nel mondo degli umani (o disumani?).
Silvana Zenatello – Faceless – Ignoti
Migranti per mare, un mare che non è quello dei villaggi vacanze o delle suggestive calette, bensì un padre-padrone spesso irascibile e impietoso, talmente malvagio da occultare nelle buie profondità le sue vittime, negando ai loro cari non solamente il gramo conforto di un corpo o di un nome da piangere, ma persino la certezza della sorte alla quale li ha condannati.
Tutto ciò non da ora, ovviamente, ma fin dall’antichità, come testimonia quest’opera di Silvana Zenatello che si è ispirata a un disegno di ventotto secoli fa.
Kenya Quilt Guild – Uhamiaji Wanjumbu
Ben quindici persone hanno contribuito alla realizzazione di quest’opera. Come le donne dei coloni americani trovavano la loro ispirazione in ciò che le circondava, orsi e boschi, così in Kenya hanno preso spunto dal loro mondo, rappresentando uno gnu che salta sul fiume Mara durante la sua migrazione verso pascoli più ricchi di cibo. In questo modo vogliono ricordarci che le migrazioni fanno parte della natura, da sempre, e se ci stupiamo piacevolmente di quanto avviene per le rondini e le cicogne non dovremmo spaventarci per ciò che accade a noi.
Nadia Realacci – Attrazione “fatale”
Quel rutilante maelstrom quadragolare, angoloso, fitto di regole che lo determinano dai suoi confini sino all’intimità siamo noi, è il cosiddetto “Primo Mondo”, del quale, per fortuna e non per diritto, facciamo parte. Si tratta della frazione visibile del genere umano, perlomeno quella che normalmente passa nei medium ufficiali, la televisione, i giornali, il cinema, internet, ma si tratta solo di una frazione, ossia il 20% del tutto. Il rimanente rimane oscuro, confinato ai margini della nostra consapevolezza, nel ghetto di catastrofi lontane e di edificanti documentari.
Suppongo che Nadia Realacci abbia aggiunto quel “fatale” pensando al potere attrattivo e distruttivo dei buchi neri nell’universo, e di come nulla di ciò che si affaccia all’orizzonte degli eventi, cioè ai nostri confini, possa prevedere quale sarà il suo “fato”.
Erano decine i pannelli del progetto “Finestre migranti”, tutti diversi per tecnica e scelta compositiva. Per motivi di spazio in questo post ne ho inseriti soltanto tre, però se andate a fare una ricerca in internet ne troverete molti altri.
Saliamo le scale e arriviamo al piano nobile.
Lì ci accoglie un’esposizione di quilt tradizionali realizzati dagli amish. Parte di questi ho già avuto modo di ammirarli in Val d’Argent, in una mostra anche allora curata da Jacques Légeret, e dove non mancherà di esserci quest’anno, Quindi, se volete vederli, sapete già dove andare…
La vera sorpresa di questa edizione è stata la mostra delle opere di Joe Cunningham.
Joe Cunningham – Michigan Winter
Questi grandi pannelli sono estremamente intriganti, e inoltre dimostrano il pieno possesso delle tecniche di quiltatura.
Joe Cunningham – It’s Already Burning
Ci sono rimasta una buona mezz’ora davanti a quelle opere, vagando per la sala da una all’altra. Più le guardavo e più mi apparivano misteriose ed esotiche. Amore a prima vista.
Joe Cunningham – New York Beauty
Non me la sento di aggiungere alto, non sarei all’altezza. Però se desideraste sapere qualcosa di più su questo artista potreste dare un’occhiata qui.
Bene, riattraversato il salone con i quilt amish sono arrivata alla sala dedicata alle opere del concorso “Laudato si’. Da Francesco a Francesco”.
Vi confesso che quando venni a conoscenza del tema del concorso rimasi perplessa, lo trovai troppo specifico, quasi limitativo, e in parte i fatti mi hanno dato, purtroppo, ragione.
Va detto che il numero delle opere esposte testimoniavano una buona partecipazione, però secondo me è mancato il guizzo di creatività, il lampo di luce, la voglia (o la possibilità?) di rischiare una personalissima interpretazione.
Qui sotto l’opera che è stata giudicata la migliore, e che risponde senza alcun dubbio a quanto suggerito dal titolo del concorso. La palese agiografia che rappresenta ha sullo sfondo i due mondi, quello dell’attuale papa e quello del fraticello di Assisi, entrambi posti in una clessidra, a testimonianza che essi sono, o almeno dovrebbero essere, della stessa sostanza.
Natalia Lashko – Sursum Corda!
L’indubbio valore di quest’opera non è dato dal quadro in sé, quanto dalla tecnica utilizzata. Se osservate il dettaglio sottostante potrete accorgevi che le pecore, come altri elementi, con sono dipinte, bensì sono realizzate con un intreccio di striscioline di stoffa, pennellate di stoffa le definirei. Giuro che l’ho guardato e riguardato, dal vivo e in fotografia, e ancora non ho compreso come Natalia sia riuscita a ottenere questo ammirevole effetto.
Natalia Lashko – Sursum Corda! – Dettaglio
La classe non è acqua. Questa originale rappresentazione del Sole e della Luna avrebbe fatto la sua bella figura anche in Val d’Argent, al concorso “L’opposition“.
Di Cristina Rizzi ancora ricordo un bellissimo quilt tutto rosso, un colore difficile da utilizzare in quanto si rischia sempre di scivolare nel puro esibizionismo.
Cristina Rizzi – Baete e Baini
Va da sé che il titolo di quest’opera può essere compreso solamente da una veneta doc.
Domus mea regulae meae, perciò mi va di inserire in questo post l’opera che mi ha colpito di più, che magari non rispecchia del tutto il tema del concorso, e che non è stata premiata. Però a me è piaciuta molto, e ritrovo questa soddisfazione anche ora che la guardo sul monitor.
Tatiana Varshavskaja – L’incontro
Di più preferirei non dire. Non che le altre opere non fossero all’altezza, e ce n’erano, come in ogni concorso, di più belle e di meno belle, però ho avuto la netta sensazione che alcune artiste di valore, quilter infinitamente più brave di me (tanto per esser chiara), non si fossero impegnate abbastanza, ossia che abbiano concesso il “minimo sindacale”, una partecipazione per onor di firma.
Sto cercando di persuadermi che non è così, che si tratta di una mia fisima, di un’obiezione infondata, di un abbaglio, ma nulla mi leva dalla testa che forse è stato proprio il tema del concorso a non far innamorare.
Volare, nel blu dipinto di blu, questa vecchia canzone mi viene in mente ammirando le opere portate a Verona dal Magyar Foltvarró Céh (Hungarian Patchwork Guild).
Il segreto di queste opere, oltre alle indubbie capacità delle quilter ungheresi, sta nel tessuto blu, chiamato Kékfestő. Si tratta di un cotone tinto mediante il pigmento ricavato dall’Indigofera tinctoria, o Indigofera Sumatrana, una pianta originaria appunto delle Indie, e questo estratto venne chiamato Indaco. Esso era noto già in epoche antiche (indikón in greco e indicume in latino), ma era molto raro poiché per arrivare in Europa doveva attraversare mezza Asia, percorrendo vie disagevoli e territori pericolosi. Nel XV secolo Vasco da Gama aprì la rotta marittima verso le Indie, e l’indaco potè trovare maggior diffusione, non solo in Europa, ma anche in Africa (il tradizionale Tagelmust dei Tuareg è appunto indaco).
In Ungheria questa tintura giunse solamente due secoli dopo, quando i turchi furono fatti sloggiare dalle armi absburgiche e il paese si potè aprire al commercio con il resto del continente europeo. Non soddisfatti dalla tinta unita gli ungheresi inventarono delle tecniche di stampa (a negativo con cera d’api) e di bagni successivi per ricavare decorazioni raffinate e diverse profondità di blu. Purtroppo gli eventi conseguenti alla dissoluzione dell’Austria-Ungheria, poi alla collettivizzazione comunista, e per finire al consumismo imperante, ridussero queste tradizioni al lumicino, ma per fortuna esse sono sopravvissute e si mostrano in tutto il loro splendore.
Oggi magari si usa l’indaco sintetico o quello proveniente da altri paesi equatoriali (ma quello migliore proviene sempre dal Bengala), magari la tintura non avviene più a freddo e per i disegni non si usa più la delicata cera d’api, magari la produzione artigianale è stata quasi del tutto soppiantata da quella industriale, però questo colore e questi disegni mantengono sempre il loro fascino.
Bogdán Erzsébet-Szabó Miklósné – Blue and white Flowerwreath
Non solamente tradizione nei quilt ungheresi, ma anche una vena di pazzia, come questo quilt dal titolo mezzo tedesco e mezzo inglese, almeno secondo me.
Szomor Ágnes – Eisflowers.jpg
Eis infatti sta per ghiaccio, mentre flowers sta per fiori, e mi sembrano proprio dei cristalli di ghiaccio, dei piccoli fiori su un bel blu notte.
Con l’opera che segue andremo a un tempo che viene ancora prima della tradizione, un’epoca dove la storia si confronta col mito, e spesso deve scendere a patti con esso.
La leggenda del sogno di Emese risale circa all’870 d.C. e vi si narra di Emese, moglie di Ügyek, il capo dei magiari quando questi vivevano ancora nelle steppe dell’Asia. Emese non aveva ancora dato figli a Ügyek, e ciò era per lei una spina nel cuore.
Una notte Emese sognò Attila, il primo di loro che dalla steppa si era spinto a occidente. Egli era a cavallo, come si conviene a un unno, recando lo stendardo di battaglia del suo popolo, e accanto a lui cavalcava il figlio di Emes, fiero come il suo antenato. Dalla bandiera di Attila si staccò il turul, un mitico rapace che sempre vi era rappresentato, e questo volò fino a lei, si posò sul suo grembo e pose il capo sul seno di Emese. Dal suo seno allora lei vide sgorgare dell’acqua, la quale formò ruscelli, torrenti, fiumi, e tutti quelli scorrevano verso Ovest, incontro a un territorio verdeggiante. Quando Emese rimase incinta, del Turul secondo la leggenda, e finalmente mise al mondo suo figlio, i magiari si convinsero che quel sogno era premonitore e si misero in viaggio verso Ovest, verso quelle terre che oggi formano l’Ungheria.
Per ricordare tale evento il figlio di Emese venne chiamato Álmos, derivazione di álom, ossia sogno.
Somogji Ferencné – The Dream of Emese
Anche l’iscrizione è coerente con i tempi, trattandosi di alfabeto runico ungherese. Se vi va, provate a capire che c’è scritto (ma non dovrebbe essere difficile…).
Forse c’è chi potrà sorridere dell’igenuità di questa leggenda, ma non dimentichiamo che esistono molte leggende simili attorno alla fondazione di una civiltà, come per esempio quella di Libuše, la veggente e principessa del popolo ceco che fondò Praga nel 730 d.C., o quella più antica di due gemelli appena nati che, lasciati in balia della sorte sulle rive del Tevere, vennero allattati da una lupa…
Ora, a volo d’uccello, andremo a dare un’occhiata alle opere che erano presenti in alcune esposizioni… periferiche (alcune forse troppo periferiche).
Alla Protomoteca Bibliteca Civica era presente l’associazione “Pazze per le pezze” di Portogruaro.
Sonia Bardella – Primavera nel mare
Speriamo che quest’anno almeno i pesci abbiano avuto una primavera migliore di quella che abbiamo passato noi!
Annalisa Fabris – Farfalla libera
Sarà per i colori, sarà per il tema, ma quest’opera di Annalisa Fabris ha un che di giapponese.
Avrei volentieri visitato anche l’esposizione dei quilt realizzati da Parma Patchwork e da Arte Patchwork Parma, nella Biblioteca Civica, sala Nervi, ma con burocratica (e insensibile) osservanza del regolamento, al sabato chiudono alle 14, a prescindere. Che nervi!
Attraversiamo l’Adige per arrivare a Palazzo Pompei, per vedere i “Tappeti di pietra: patchwork nella storia dell’arte italiana”.
Roberta Pasqualato – Il mio cosmatesco
Il termine “cosmatesco” indica l’arte di decorare pavimenti mediante l’utilizzo di pietre di diverso colore, più grandi delle tessere di un mosaico, ma geometricamente esatte per garantire la completezza del disegno, una sorta di arabesco orizzontale. Di origine bizantina, questo stile prende il nome dalla famiglia di marmorari romani che ne furono i più famosi artefici: i Cosmati.
Maria Grazia Colombo – Il tappeto della “Madunina” – Duomo di Milano
Se andate a cercare in internet qualche immagine del pavimento del Duomo di Milano vedrete che Maria Grazia Colombo è stata estremamente fedele al disegno originale.
Qui sotto una delle opere più intriganti, tutto questo rosso che sa di sangue, perché se di danza si tratta, sovente tra i galli non è incruenta.
Sarei curiosa di sapere se Lia Meiborg è anche l’autrice del soggetto, oppure se si è ispirata a qualcosa di esistente, e in questo caso dov’è e com’è l’originale.
Lia Meiborg – Dance of the roosters
Lia Meiborg – Dance of the roosters – Dettaglio
Riattraversiamo l’Adige e ci spingiamo fino al Museo degli Affreschi, in buona sostanza fino alla tomba di Giulietta. Due anni fa fu l’Inferno di Dante il tema di un’esposizione a Verona, mentre quest’anno sono le terzine incatenate del Purgatorio e del Paradiso a dover essere interpretate.
Stile Malena – Ritratto di Dante Alighieri
Nel dubbio, intanto Stile Malena ha realizzato questo bel ritratto del Sommo Poeta, probabilmente prendendo spunto dalla statua che si trova a Firenze, la stessa città che all’epoca per lui fu una perfida matrigna.
Marianovella Hemala – Paradiso-VII cielo – Saturno
Chissà se i Led Zeppelin avevano letto la Divina Commedia prima di comporre “Starway to Heaven”. Ne dubito. Però Marianovella Hemala che ha realizzato questo bel pannello sì, e forse conosce anche la musica dei Led Zeppelin…
L’opera sottostante non parrebbe rappresentare il Paradiso, invece il Secondo Cielo, identificato col pianeta Mercurio, è quello dove Beatrice spiega a Dante il senso della crocifissione di Cristo.
Stile Malena – Paradiso – II Cielo – Mercurio
Uscendo, passo accanto alla tomba di Giulietta. Non c’è quasi nessuno, e se ripenso alla folla sotto al suo balcone, nel centro di Verona, mi capita di riflettere sull’assurdità della situazione, e per associazione di idee all’assurdità di quel dramma, quattro giorni di equivoci, contrattempi e malintesi che hanno comunque affascinato la fantasia popolare per secoli.
Basta, per oggi ho scarpinato abbastanza. Ci sarebbero un altro paio di cosette da vedere, ma, primo, non so bene dove stiano in città, e, secondo, ha iniziato a piovere, il che non è di grande incoraggiamento. Così mi dirigo verso la stazione ferroviaria, e intanto inizio a rimuginare su quanto ho visto, incapace di decidermi se sentirmi soddisfatta o meno, e si può dire che non ho ancora terminato di farlo, nemmeno ora mentre sto rileggendo questo post.
Resta il fatto che vado sempre più assomigliando a Olive Kitteridge, il che non è un bene, per nessuno.
Come sempre potrete trovare altre immagini nel mio nuovo spazio Flickr, e qualora vi interessassero gli album precedenti al 2019, li potete vedere qui.
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Absolutely incredible work!
Thank You.
It’s true, patchwork can be an exciting artistic expression.
Bye
Rossana