Questo è un post importante.
Potrebbe essere il mio ultimo articolo sul Prague Patchwork Meeting.
Precisiamo, non è che sia rimasta delusa dalla mostra, tutt’altro. Le opere esposte erano apprezzabili, sistemate con gusto e criterio, variate nello stile e perfettamente godibili, insomma tutto bene come sempre.
Ma è proprio quel “come sempre” a mettermi in crisi.
Già prima di partire temevo di trovarmi di fronte al solito copione, pregevole fin che si vuole, ma troppe volte replicato.
Ecco allora la solita strada, con il solito marciapiede e i soliti due tombini senza coperchio che se ci finisci col piede dentro ti fai fuori la caviglia (a essere ottimiste). Ecco la solita ripida scala metallica stile “La collina del disonore”, salendo la quale prima o poi qualcuna si sentirà male. Ecco nell’atrio la solita esposizione a tema sistemata sui soliti cavalletti del 2011. Ecco la solita disposizione impeccabile, ma canonica, delle opere, per cui tutto appare ma nulla emerge. Ecco le solite creazioni tessili, talune ammirevoli per fattura e composizione, comunque gradevoli, però mai imprudenti o impudenti. Ecco ancora, per buon peso, la solita (e inspiegabile) assenza a Praga di cartelli, affissi, volantini, o anche minimi indizi che citino il Meeting.
Ci tengo a precisare che a Jana Štěrbová (Deus ex machina della mostra) va tutta la mia ammirazione, per la sua cifra artistica in primis, ma anche per essere riuscita a gestire per tanti anni questa manifestazione patchwork. Resto convinta che la persona in grado di tenere assieme e mettere d’accordo un gruppo di quilter può tranquillamente venir candidata al ruolo di Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Detto ciò avrei sperato che, in un attimo di coraggio o di follia, lei decidesse di uscire dagli scorrevoli binari del successo garantito e rischiasse relazioni e reputazione per battere sentieri ancora inesplorati.
Forse la colpa è invece soltanto mia. Troppe cose ho già visto, e troppo in alto pongo ormai l’asticella della mia considerazione. Sono un po’ come il viaggiatore che ha girato mezzo mondo e che trova difficile provare ancora meraviglia, perciò confesso qui la mia colpa, quella di essere diventata incontentabile e sofistica, in una parola: viziata.
Fatta questa premessa, è ora che vi racconti qualcosa della mostra, un’esposizione che comunque consiglio di andare a vedere, almeno una volta. Magari potrei consigliarvi di andarci con più comodità di quanto abbia fatto io, perché non so se tutte le aficionade del patchwork siano in grado di reggere dodici ore andare e dodici ore tornare di autobus notturno; magari sarei in grado di suggerirvi dei trasferimenti più confortevoli.
Solamente per il gusto di smentirmi, ecco cosa espone Irena Zemanová, una quilter che mi ha sempre colpito per l’originalità delle sue opere. Ricordo ancora bene un bel patchwork con un tema semplicissimo, due foglie, ma cosi ben composto cromaticamente da risultare una vera opera d’arte.
Nastro, legno, ganci metallici e carta da pacchi. Forse non possiamo definirlo un patchwork, forse non è adatto come copriletto, forse pulirlo è un bel problema, però in quest’opera, in questo pianeta tessile sospeso (o imprigionato) nella cornice intravedo il desiderio di comunicare un messaggio. Sta a chi osserva indovinare quale.
Dal futuro al passato, alle tradizioni della Wallachia che Věra Skočková ci propone con le sue opere tricolori. Solamente blu, bianco e rosso in tutta la sua produzione, per una rappresentazione fiabesca della sua terra, mescolando sogni e realtà (ma c’è veramente tanta differenza?), ghiande musiciste e gli effetti della slivovka.
Dopo essersi lambiccati il cervello per interpretare il significato e la valenza di opere astratte, un quarto d’ora assieme alle allegre opere naïf di Věra Skočková è sempre una boccata d’aria fresca (o un sorso di slivovka).
E già che parliamo di tradizione, ecco il Dresden Plate, un blocco “storico” del patchwork, ma stavolta declinato in modo alternativo e, mi si conceda di affermarlo, estremamente godibile.
Ahi ahi ahi, anche Anna Králíková è rimasta vittima della Sindrome di Bullerbyn.
Andiamo con ordine. Vi ricordate di Pippi Calzelunghe? Quella ragazzina dall’aspetto stravagante e dalla forza prodigiosa è nata dalla fantasia di Astrid Lindgren, una scrittrice svedese di libri per bambini. Scrittrice per caso potremmo dire, in quanto le avventure di Pippi Calzelunghe furono inventate lì per lì da Astrid per intrattenere sua figlia Karin di otto anni costretta a letto da una polmonite.
Dopo la pubblicazione di quei racconti Astrid Lindgren scrisse molte altre opere, e quattro di queste sono ambientate nel villaggio di Bullerby (creato ispirandosi al vicino villaggio di Sevedstorp). La descrizione bucolica e idilliaca di Bullerby, una sorta di versione microscopica del mondo di Shangri-La immaginato da James Hilton, ha generato il desiderio che questa utopia minima della Svezia anteguerra esista veramente, la Sindrome di Bullerbyn appunto.
In quest’opera di Anna Králíková traspare un desiderio di serenità, di armonia, di piccolo mondo antico. Una sola osservazione mi concedo, ossia che nei racconti di Astrid Lindgren le case di Bullerbyn sono solamente tre, ma suppongo che valga lo spirito dell’opera, col quale Anna ha voluto accostare nel Dresden Plate tutte le Bullerbyn che non può fare a meno di sognare.
Ecco invece la Svezia di oggi, nelle opere di Bengt Svenningsson, nette, anche se, c’era da aspettarselo visto il clima, un po’ algide.
Qui sotto ammirate cosa può succedere quando fantasia e tecnica si uniscono per creare un’opera unica nel suo genere.
Se, evento ipotetico e quanto mai irrealistico, capitasse che io mi trovi a essere una componente di una giuria (temo quel giorno e dovreste temerlo anche voi), a un opera come quella sottostante regalerei senza undugio almeno una menzione.
La fotografia non rende giustizia alla qualità della realizzazione. Non si tratta di un banale “Giardino della nonna”, bensì di effetti esagonali ottenuti mediante sovrapposizione e quiltatura., con in più un’attenzione particolare per il colore, in maniera che nessuno di questi prevalga o cancelli la profondità del nero dal quale emergono. Purtroppo questo concede la mia attrezzatura fotografica, e per apprezzare come si conviene quest’opera bisognava essere lì.
Intanto che state leggendo questo post potrebbe capitarvi di provare una punta di appetito, che ne so, giusto quel languorino che richiede soddisfazione. Allora prendetevi una pausa e fatevi uno spuntino, il pane casereccio ve lo offre Olga Avdyeyeva.
Christine Bünning ama la musica (è una valente violinista), ma ama anche il patchwork. Che fare?
Semplice, basta unire le due cose.
Cominciamo col chiederci cosa sarebbe successo se Vincent Van Gogh fosse stato un musicista, e quale sarebbe stato il suo stile, forse quello di Leoš Janáček, forse quello di Franz Liszt,
o magari quello di Modest Petrovič Musorgskij, anche lui così legato al suo popolo come lo era Van Gogh.
C’era ancora una sua piccola opera molto curiosa, ma la troverete nel filmato di questa ennesima spedizione in terra boema.
A Praga non mancano mai di fare bella figura le opere di Romana Černá, e anche questa laguna veneta è rappresentata con mille sfumature del suo colore preferito, il blu.
Non è la prima volta che il mare, e Venezia, fanno da soggetto alle opere di Romana Černá, e se per quanto riguarda il mare il motivo potrebbe essere ovvio in quanto in Boemia esso non c’è, quindi verrebbe percepito come qualcosa di esotico, per Venezia potrebbe trattarsi di un’attrazione elettiva verso quell’antica capitale che condivide con Praga una indiscutibile unicità.
Repetita iuvant dicevano nell’antica Roma, però questo detto non vale per Jana Šterbová, la quale non si ripete mai, e anzi è sempre alla ricerca di nuove forme compositive (il che non sempre avviene nel caso di alcune quotatissime quilter).
Se andate a dare un’occhiata ai post sulle passate edizioni del Prague Patchwork Meeting potrete notare anche voi la versatilità del suo percorso artistico.
Quanto mi piacciono, ma quanto mi piacciono le creazioni di Isabelle Wiessler!
Già qualche anno fa, sempre a Praga, fui colpita dalla sua essenzialità pittorica, dalla sua maniera di rappresentare la realtà e allo stesso tempo trasfigurarla per cavarne l’essenza. Se non ci credete andate a dare un’occhiata a questo post del 2013.
Cos’è questo che vedete qui sopra?
Ghiaccio, solamente ghiaccio, ma è quello dell’Aletsch, il ghiacciaio più grande delle Alpi, e se vi va di perdere cinque minuti andate a cercarne qualche immagine su Internet. Lì troverete quelle onde, quelle increspature, quelle fessure che Isabelle Wiessler ha magistralmente riportato su stoffa mostrandoci non il ghiacciaio in sé, bensì la sua pelle, vissuta, grinzosa, graffiata, come quella di un essere vivente.
Nella fotografia magari non si nota, perciò ve la dovrete immaginare la particolarità di quest’opera.
Le zone che voi vedete bianche (beh, diciamo grigio chiaro) non sono realizzate con la stoffa, bensì con… niente.
Infatti Wil Fritsma, con una particolare tecnica personale, opera per rimozione, ottenendo delle figure sospese, come un ricamo. Va da sé che tutto ciò non può essere definito un patchwork, ma è altrettanto vero che tali creazioni (come, per esempio, quelle di Desedamas) per essere esaltate come meritano avrebbero bisogno di una sistemazione e un’illuminazione che ne mettano in risalto le trasparenze, il che, come ho anticipato nel cappello, a Praga non è avvenuto. Peccato.
Dopo lo sperimentale, ecco il tradizionale, il Dresden Plate, in variazione Blues, di Milena Kankrlíková, sempre molto precisa nelle sue composizioni.
Se non ci credete, date un’occhiata ai dettagli.
Pochi esperimenti per questa Bethlehem Star di Danuše Brezinová, solamente un accurato (e riuscito) studio della composizione, per un felice accostamento cromatico dei colori caldi del tramonto, e l’abbinamento deille forma geometriche con i sinuosi motivi floreali che allegeriscono il tutto.
Quelli che vedete qua sotto sono numeri, semplicissimi numeri, e se vi mettete d’impegno potreste anche contarli, quattro colonne più una barra trasversale eguale cinque, e avanti così.
Solamente che non si può andare avanti così.
Il blu è quello del mare, il Mediterraneo per essere precisi, e la conta è quella di quanti ci sono annegati nel tentativo di attraversarlo.
Confesso di non amare particolarmente le opere che intendono platealmente trasmettere un messaggio edificante o di denuncia, non perché mi trovi eventualmente in disaccordo con il contenuto, bensì perché capita che queste opere risultino semplicistiche nel loro sincero candore. Come spesso uso dire, sono un po’ come il tema “La mia compagna di banco” di scolastica memoria.
Tutt’altra storia per questa brillante idea di Uta Lenk. Lei infatti, con degli elementi molto semplici, racconta un doppio dramma, quello di chi perde la vita in mare e quello di chi di chi ragiona solamente in termini numerici, un calcolo del dare e avere delle vite umane. In tutta onestà non saprei veramente chi compatire di più, se chi è morto in mare o chi è morto dentro.
Come al solito mi va di chiudere il mio reportage con l’opera che più mi ha sorpreso. Magari non sarà stata la migliore della mostra (comunque è una questione di gusti), però è quella che, secondo me, aveva quel qualcosa in più, ciò che viene definito un quid. Basta poco, un dettaglio, un esperimento, una sfumatura per fami innamorare, e l’amore, si sa, non ha bisogno di spiegazioni.
Al Prague Patchwork Meeting c’erano altre molte creazioni tessili, ma, primo, non le ho fotografate tutte e, secondo, non potevo inserire tutte quelle che ho fotografato in questo post. Come sempre potete andare a vedere in Flickr per trovare ancora qualche immagine del PPM2019.
Nota: non si tratta del mio solito archivio di immagini, in quanto Flickr mi chiedeva 5,40€ al mese per inserirci altre fotografie, e così ho registrato i nuovi album su un archivio diverso, sempre su Flickr, ma con un’altra registrazione (lastoffagiusta2019).
In ogni caso tutte le mie fotografie precedenti la trovate sempre qui.
E già che c’ero sono andata a curiosare cosa avevano combinato a Žižkov, dove si teneva il Festival textilu a quiltu.
Quest’anno niente trasferimenti fino all’estrema periferia di Praga, stavolta bastava prendere il 133, e in dieci minuti si era arrivate. Peccato che la mostra si trovasse al terzo piano di un antico istituto tecnico ora riadattato a centro sportivo-svago-cultura, ovviamente senza ascensore. Pazienza, non si può avere tutto…
Qui gli stili e gli obiettivi sono molto più semplici, più comprensibili, e tutto sommato tradiscono il desiderio di provare anche a divertirsi realizzando un patchwork.
Interessante questo capo di abbigliamento realizzato dalla stilista Iveta Nedomová di Brno. Lei è usa presentare una serie di abiti molto originali per convincere le donne del pubblico a non cadere nelle trappole dei marchi famosi, e a non avere paura di mostrare la propria personalità nel vestire.
Viera Sehnoutková ha realizzato questo bellissimo pavone, di sicuro il patchwork più interessante della mostra, almeno secondo me.
Confesso che ho apprezzato alcune sue soluzioni tecniche, tanto che le ho fatte mie. Grazie Viera! (altre immagini su Flickr)
Suggerimento: non mancate di fare una capatina al negozio di stoffe Bolena Tex che si trova accanto all’entrata della mostra. Troverete lì tutto quello che da noi “non esiste”.
Visto che avete portato pazienza fino a qui, mi va di offrirvi anche un breve filmato di questo mio “tour textile” a Praga.
Bene, ora che il mio dovere l’ho fatto posso andare a farmi un giretto per Praga. La mia agenzia di viaggi, nonché fotografo e sherpa sa bene cosa mi piace, anche meglio di me, perciò…
… Ahoj
Pingback: Praga 2019 | My3Place
Beh, ormai siete dei reporter perfetti e non potete smettere di offrici questi magnifici reportage.
Esatto, due perfetti “cani da riportage”
Bellissimo reportage! Molti bei lavori… unici!!
Grazie, e in effetti, nonostante in Cechia il patchwork non faccia parte della tradizione, le quilter locali hanno fatto grandi passi in avanti, discostandosi dai modelli anglosassoni e francesi.
Se vuoi ammirare qualcosa di superlativo ti consiglierei una visita al Carrefour Européen du Patchwork, un’esposizione internazionale che si tiene in Alsazia nel mese di settembre.
Ahoj