Peor que un tren de Renfe, esta vez realmente hemos acumulado un retraso imperdonable, y solo por un articulo que queria publicar en poco tiempo.
Sucede que los dioses de la informática no se muestran benévolos, y de hecho, como informé en post anterior, un grave problema con la placa base del ordenador nos habia dejado en el suelo. Desafortunadamente no se encontró el reemplazo, y después de algunos intentos fallidos de solucionarlo, decidimos ejecutar un renovación del carro, una actualización dehardware esencialmente, reemplazando el tablero, procesador y memorias. Certo, lo hubiéramos hecho antes comprando una nueva PC, sin embargo, nuestra naturaleza siempre nos empuja hacia la recuperación., y también esta computadora es una especie de patchwork electrónico, sin olvidar la ventaja de haber gastado menos de un tercio de lo que deberíamos haber dejado en la caja de una tienda de informática.
Bene, pasemos a la narración de nuestra expedición a Moravia.
De hecho no, paramos primero en Viena.
En otoño necesitaré un vestido bastante elegante adecuado para una ceremonia, y desesperado por encontrar algo bueno cerca a precios "humanos", tenía ganas de hacerlo yo mismo. No hace falta decir que una prenda elegante también requiere de la materia prima adecuada, pero el panorama de las telas disponibles en los emporios locales era, y es, desesperado: baja calidad, colores improbables, fantasías banales y elección mínima, por no hablar del origen "exótico" de la mayoría de los productos.
Mi agente de viajes / webmaster / fotógrafo / sherpa / editor / arribista / ecc. se le ocurrió una idea interesante, es decir, en lugar de ir directamente a Moravia habríamos parado en Viena, y luego salir de allí para visitar el PPM en Brno, menos de una hora y media en tren, y así lo hicimos. El objetivo era pasar un día entero deambulando por las tiendas de la capital austriaca en busca de telas.
Sabemos que el hombre propone y Dios dispone, y una vez más las cosas dieron un giro inesperado. Teníamos una gran lista de emporios a nuestra disposición., todas las direcciones, los horarios, mapas para llegar, pero cuando entré en la primera tienda de la lista, de Komolka, Rápidamente me di cuenta de que el resto de la información era perfectamente inútil.. Tres pisos, dos mil metros cuadrados de tienda, telas de todo tipo, variedad de colores para lastimar tus ojos, y también un área donde puedes consultar revistas de moda para inspirarte., pero no solo eso, también para encontrar el patrón a medida para la prenda que quieras confeccionar. Poteva bastare? No, él no podría. Para colmo añadiré un detalle nada desdeñable, un elemento que generó en mí dos sentimientos encontrados, ira y placer. Todo lo que debería haber encontrado en mi casa lo encontré allí, y repito que debería haber, dado que casi todas las telas eran hecho en Italia, y no añadiré nada más.
Después de casi tres horas salí de esa tienda con todo., pero casi todo lo que necesitaba, y el resto del día sería suficiente para deshacerme de la emoción de haberme topado con una realidad que ni siquiera imaginaba que existía. Si hubiera visto extraterrestres bajar de un platillo volador, me habría impresionado menos..
El día siguiente, desayuno rápido y fuera de Brno, donde nos familiarizamos con el sistema de pago de boletos en el transporte público. Todo resulta ser extremadamente simple.: y su, deslizas tu tarjeta de crédito sin contacto al lado de la maquina, espere el pitido de confirmación e voila, el juego, de hecho el boleto esta hecho, 25 coronas, una hora de vigencia. sin mapas, monedas, pre ventas, borrando, ecc. Práctico, no?
Esta vez en el Centro de Exposiciones de Brno nos orientamos un poco mejor (es grande, muy grande, demasiado), también gracias a unos indicios que faltaban el año pasado, perciò abbiamo trovato l’ingresso senza troppi patemi.
Ecco, appena entrati giusto una rapida occhiata al volo prima di soffermarsi su qualche opera particolarmente interessante.
Così, su due piedi, direi che il numero di lavori esposti esposte sia maggiore rispetto allo scorso anno. Adesso non resta che verificarne la qualità…
Le prime opere che incontriamo sono quelle di Birgit Schüller, un’artista nel vero senso del termine, in quanto ha da tempo deciso di fuggire dalle rappresentazioni classiche del patchwork per esplorare nuove vie espressive, pur senza tradire la tecnica o aggirare le difficoltà.
Questo panno ha dei buchi, e perciò si potrebbe credere che abbia perso valore. In realtà potremmo considerare che si tratta di accidentali finestre che danno su un panorama ben più colorato e attraente del prevedibile monocromo quotidiano.
Mi verrebbe da interpretarlo come un’esortazione a ogni quilter che lo sta osservando, e dice: strappate la tela, liberate la fantasia e datele una forma espressiva!
Il patchwork è spesso questione di punti di vista. A coloro che difendono a spada tratta i blocchi tradizionali rispondono altrettante voci che li dichiarono superati, e non c’è modo di accordarsi, come in una sorta di guerra fredda. C’è chi imputa alle quilter “progressiste” l’utilizzo di scorciatoie per evitare le difficoltà tecniche che la realizzazione di una trapunta tradizionale comporta, e dalla barricata opposta si inneggia alla libertà espressiva tout court, l’unico ponte verso l’arte.
Birgit Schüller ci dimostra che in fondo si tratta solamente di un punto di vista, un elemento che nell’arte contemporanea ha perso importanza, perlomeno da Picasso in poi, e non solamente nell’arte, anche nella fisica e nella filosofia. Nelle sue opere sono presenti in egual misura la tecnica e la sperimentazione, con soluzioni cromatiche finemente elaborate.
Si no recuerdo mal, è dal 2013 che incontro i patchwork di Anke Pradel-Schönknecht al PPM e, sempre se mi non ricordo male, i colori dominanti erano freddi, il verde, il grigio, il viola. Stavolta invece lei ha acceso la luce, con opere quasi accecanti per la loro brillantezza, sia cromatica che estetica
Nessun dubbio sul fatto che Anke Pradel-Schönknecht sia un’artista eclettica in grado di dominare i colori più smaglianti come pure le tinte più cupe.
Qualcosa di Elke Klein mi era già capitato di vedere in Val d’Argent, ma a Brno le stata dedicata un’intera sezione espositiva. Non poteva essere altrimenti viste le dimensioni “generose” delle sue opere tessili.
Se in futuro andrete per mostre sono certa che incontrerete i patchwork di Elke Klein, e nemmeno passeranno inosservati. Non potrebbe essere altrimenti stante l’alto impatto espressivo di ogni sua opera, il risultato di una paziente ricerca dove pittura e struttura si sposano perfettamente, aunque, per fortuna, non stabilmente.
Vi chiederete il perché di quel “per fortuna”. Quando vi capiterà di osservare una delle sue opere provate focalizzare l’attenzione sulle striscioline che, in maniera ordinata o sapientemente disordinata, suggeriscono una trama, un disegno, un proyecto, e a quel punto dimenticate schemi, disegni e progetti. Allora le vedrete vibrare, muoversi, caer, volare, una vera e propria fuga dalla struttura dove chi osserva è complice inconsapevole di questa evasione formale.
Ospite dell’edizione 2023 del PPM è stata la Polonia, e le opere delle quilter polacche sono state molto apprezzate, tanto da mettersi in evidenza anche nei concorsi di quest’anno. Per me non è una novità in quanto già nel 2016 ebbi modo di constatare a Treviso la loro abilità.
Inizierei con un’opera abbastanza sfarzosa di Sylwia Ignatowska, intitolata “Stone Ring of Power”, che si è classificata al primo posto nel concorso dedicato al tema “Wedding Rings“.
Si tratta di un tema classico che capita spesso di incontare nelle mostre di patchwork, noto anche come “Bali Rings” o “Bali Wedding Star“, e che presenta discrete difficoltà esecutive.
Sylwia Ignatowska non me ne voglia, sarò sincera (come quasi sempre), ma ho apprezzato di più il patckwork “With hope” Milena Kankrlíková, dalla Moravia. L’ho preferito per la scelta di colori, per la ricerca di una variante compositiva di un tema molto tradizionale e per la contaminazione dovuta a un curatissimo ricamo che impreziosisce l’opera
Anche il titolo dice tutto: “With hope”. Quando ci si sposa lo si fa col cuore pieno di speranza, un sentimento magari ingenuo, magari fragile, magari malinteso, magari effimero, e dovrebbe essere sempre così perché se non ci fosse la speranza niente avrebbe senso.
Contaminazione dicevo, e funziona anche senza andare a caccia dell’effetto speciale, senza tentare ardite e improbabili sperimentazioni, senza assemblare uno zibaldone di stili. In questo caso è sufficiente utilizzare con pazienza e fantasia una tecnica quanto mai comune: bordado
Eva Linhartová ha realizzato ad ago 48 pequeños mandala, tutti uno diverso dall’altro, come colori e come disegno, a punto catenella, punto pieno, punto margherita, eccetera.
Magari non segue le mode del momento, magari non palesa velleità artistiche, magari non è frutto di un progetto studiato a tavolino, però l’abilità, in questo caso, non si discute.
Si sarà capito che non vado in cerca solamente dell’espressione artistica “a ogni costo”, in quanto mi affascina anche e soprattutto ciò che è originale, e allora come non innamorarsi di quest’opera?
Potrebbe rappresentare benissimo l’essenza del patchwork, dove ciò che è materiale o predefinito, come il colore nei tubetti e i blocchi che li contraddistinguono, trova una forma più alta, più leggera, più complessa e più libera grazie alla fantasia dell’artista, ovvero in una sorta di gestalt tessile dove “il tutto è più della somma delle singole parti”.
Del concorso che aveva per tema l’energia ho scelto di mostrare qui due opere di lettura solo apparentemente facile, e comunque completamente diverse nel trattamento del soggetto proposto.
A prima vista si potrebbe pensare che stiamo guardando il sole, ma, almeno secondo me, non è così. Barbara Pieczynska ha inteso dare forma visiva all’energia bruciante del nostro sole, e l’ha fatto mediante delle variazioni cromatiche, rappresentando i colori (o non colori) ai quali colleghiamo l’intensità dell’energia che ci piove sulla testa durante tutta la giornata.
Altro discorso, ben diverso, per questa sibillina opera di Ivana Brzáková, per la quale il mio giudizio rimane ancora sospeso (il che è un punto a suo favore, s’intende…).
Lo que allí se representa se presta a diferentes interpretaciones., hasta diría antitético, y el titulo ya plantea la primera pregunta.
“energía de los hombres”, energía de los hombres, hasta ahora es sencillo, pero también genérico en que para “hombres” a veces todos los componentes de la humanidad están destinados. Dado que aquí sólo están representados los hombres y queriendo indicar específicamente el “loro” Energía vital, hubiera sido mas correcto “Energía de los machos”.
Comunque soprassediamo a questo dettaglio lessicale e soffermiamoci sulle figure rappresentate nel quilt. Possiamo vedere che accanto a figure che svolgono varie forme di attività fisica ne sono presenti quasi altrettante che sembrano evitarla, da chi sta bighellonando a chi è stato messo fuori combattimento dagli eccessi alcolici.
Mi verrebbe da pensare che l’artista abbia inteso “smitizzare” la presupposta energia maschile, relegandola a mera manifestazione di forza, non sempre costante e non sempre produttiva, cuando sabemos que, aunque con valores menores como “fuerza” pura, las mujeres siempre han tenido energía de sobra, y en mucha mayor medida.
Come sempre, al PPM non mancavano delle opere di artiste ben note.
Elisabeth Nacenta-de la Croix ha portato una serie di opere “liquide”, o eso, anche se con titoli diversi, ricordavano l’acqua, i suoi colori, i suoi chiaroscuri, le sue trasparenze.
“A Scrap a Day”, un pezzetto, un ritaglio, uno sfrido al giorno, e giorno dopo giorno Uta Lenk ha realizzato quest’opera astratta decisamente originale.
A Brno ho ritrovato un’artista che fu una delle piacevoli sorprese nel 2021 in Val d’Argent. Dalla freddissima Riga, Elina Lusis-Grimberga ha portato delle opere nelle quali dominano spesso i colori poco intensi, i neri, i grigi, e le sovrapposizioni.
In genere lei preferisce il contrasto tra chiari e scuri, con le forme che a tratti danno la sensazione che stiano cercando autonomamente un difficile equilibrio.
Comunque anche quando Elina Lusis-Grimberga si cimenta con colori più vivaci, il risultato di trasparenze e accostamenti imprevisti è notevole.
Originale, anzi no, interessante, anzi no, impegnativa, anzi no, divertente, en breve, non so che aggettivo scegliere per questa idea di concorso a percorso obbligato intitolato “Project Veba – Africa”.
In genere, nei concorsi viene proposto un tema da interpretare, e l’artista fa del suo meglio con i materiali che ritiene i più adatti per ottenere il risultato che ha in mente. Al PPM la faccenda invece è più difficile, è una vera e propria sfida.
BVV Trade Fairs Brno, l’ente organizzatore delle fiere di Brno, e Veba, un’azienda tessile ceca, hanno fornito 4 pezze di stoffa di 40 x 40 cm, con i colori e disegni che potete vedere nell’immagine sottostante. ten cuidado, non si trattava di una stoffa qualunque, bensì era broccato africano, ovvero un tessuto 100% cotone con finitura lucida.
Oltre a quelle stoffe potevano essere aggiunti altri materiali, ma sempre con una funzione ausiliaria rispetto allla figura principale. Va da sé che ogni patchwork doveva avere per tema l’Africa.
Eccovi tre esempi di come, partendo dagli stessi materiali, il tema sia stato sviluppato in direzioni completamente diverse, il che ci porta a ragionare su una sorta di paradosso, cioè che più limitazioni vengono imposte alle quilter, più la loro fantasia troverà modo di esprimersi liberamente.
Sinceri complimenti alle artiste che hanno partecipato e a chi ha organizzato questo concorso.
Da più di dieci anni non c’è edizione del PPM senza Romana Černá, e posso dire che non mi ha mai deluso, anzi mi è capitato di osservare quanto lei abbia più volte percorso nuove strade stilistiche, ma senza facili fughe in avanti.
Ciò che mi piace di lei è la versatilità, quella che le permette di passare da temi astratti al figurativo, dai colori accesi alle matiz più delicate, del sueño a la realidad
Dovevo ancora incontrare una quilter appassionata di auto sportive, como el de arriba, una bola de fuego más insinuada que representada, quasi un predatore accucciato in attesa di scattare sotto una pioggia battente che lo mimetizza.
Penso che “Textile jazz” sia la denominazione perfetta non solo per l’opera sottostante, ma anche per tutta la produzione di Gerlinde Merl. Infatti, come nella musica jazz, troviamo una libertà espressiva che si appoggia a una tecnica eccellente.
Qui lo stesso colore, il verde, è stato “declinato” in strutture diverse, è stato “sfumato” in varie gradazioni, è stato “sporcato” da altri colori, è stato “ingabbiato” in cinque temi separati, eppure tutto si tiene, come i tempi di un pezzo musicale.
Ricordate i wedding ring che avete visto all’inizio di questo post? Bene, anche questi qui sotto sono anelli, ma solo se si intende sposare una strega.
Tutto concorre a creare un’atmosfera stregonesca, i colori cupi, la forma degli anelli, la scelta delle stoffe, l’irruzione di acuminate punte nelle zone arrotondate, la suggerita pesantezza della rete che gli anelli formano, e nonostante tutto ciò questo patchwork non risulta opprimente, tutt’altro.
In genovese si usa dire “fà sciortì sàngoe da ‘na pria” (far uscir sangue da una pietra) per definire una missione impossibile, eppure le artiste di Art Quilt Harbour sono riuscite nell’impresa di raffigurare il sangue delle pietre, i colori le vene, i grumi, le ferite, in una serie di opere sul tema “Kameny”.
Mission impossible? No di certo per queste artiste ceche, le quali hanno formato un gruppo che non teme di confrontarsi con sempre nuove sfide. Chissà cosa staranno architettando ora…
Se vi piacciono i gatti questo patchwork di Anna Zychowa Duda fa al caso vostro.
Questo è il carnevale dei gatti, una festa polacca durante la quale si indossano maschere da gatto. Ovviamente è perlopiù dedicata ai bambini, ma l’artista ha inteso rappresentare lo stretto legame tra noi e quei felini che, pur non essendo espansivi come i cani, riescono a rubarci il cuore.
Lo scrittore James Boswell riporta nel suo “Visita a Rousseau e a Voltaire” un interessante dialogo col famoso filosofo svizzero.
Rousseau: «Vi piacciono i gatti?».
Boswell: «No».
Rousseau: «Ne ero sicuro. È un segno del carattere. In questo avete l’istinto umano del dispotismo. Agli uomini non piacciono i gatti perché il gatto è libero e non si adatterà mai a essere schiavo. Non fa nulla su vostro ordine, come fanno altri animali».
Boswell: «Nemmeno una gallina, obbedisce agli ordini».
Rousseau: «Vi obbedirebbe, se sapeste farvi capire da essa. Un gatto vi capisce benissimo, ma non vi obbedisce.»
Il titolo di questo bel patchwork è appunto “una conversación con el gato”. Y dime, nos hablas con tu gato? y que hace entonces, el te responde, te ignora, se enfada?
Marty Ornish, o como prefieras, marty-o, è anche definita “la donna che sussurrava ai quilt“.
Mi spiego. Lei non realizza solamente dei patchwork da appendere, ma anche dei patchwork da indossare, y lo hace, le importaría, reutilizar edredones viejos parcialmente arruinados. Già di per sé un patchwork ha più valore se vengono utilizzate delle stoffe di recupero, e lei ha deciso di elevare al quadrato il riuso di quei materiali.
Qui mostrerò solamente delle opere bidimensionali (casi…), ma vi invito a dare un’occhiata al suo sito web per vedere gli abiti meravigliosi che ha concepito.
Questa attività fa riferimento alla sua filosofia di consumo sostenibile, quella stessa che condanna lo spreco di materiali utilizzati nei “junk clothes“, i vestiti spazzatura, che appunto in breve tempo sono destinati a diventare veramente spazzatura, e veramente inquinanti.
De nada serviría recordarte que la mayor parte de lo que encuentras en las estanterías de los grandes almacenes (e magari anche nelle boutique) fue hecho por trabajadores explotados y mal pagados, perolopiù donne, por lo tanto, de sujetos aún más débiles socialmente. Sapevatelo.
Appunto sui diritti delle donne Marty-O punta il suo focus, come nell’opera qui sopra che identifica nella pillola anticoncezionale una fondamentale e imprescindibile tutela della libertà femminile. Gracias a la píldora, la maternidad por fin dejó de ser una situación casual, sufrido, involuntario, punitivo, yo diria casi obligatorio, y por fin la mujer pudo disfrutar de su cuerpo sin esa espada de Damocles sobre su cabeza. De nuevo gracias a la píldora, ya no era necesario recurrir a métodos más o menos fiables, más o menos permitido, más o menos disponible para interrumpir un embarazo no deseado. No olvidemos los riesgos que corrieron nuestras abuelas cuando tenían que “liberarse” dell’ennesima gestazione affidandosi a metodi arcaici, improvvisati, da sole o con l’aiuto di figure non sempre competenti e limpide, fermo restando l’opprimente senso di vergogna che una società bigotta aveva sapientemente instillato in loro.
Non dimentichiamocene perché oggi capita di osservare una sorta di tendenza al ritorno di quei tempi bui, un furore integralista e retrogrado che si maschera dietro a sedicenti politiche a favore della natalità a prescindere, con la benedizione ovviamente delle istituzioni clericali, e mi spiace constatare che troppo spesso a cadere in quella trappola mediatica sono le donne.
Quindi, se pensate che un patchwork sia solamente una bella decorazione realizzata con della stoffa state facendo un torto a tutte quelle artiste che, nonostante le difficoltà imposte dalla tecnica e dai materiali, tentano di far passare un messaggio importante.
Come nell’opera qui sopra, il cui titolo dovrebbe dire già molto anche a chi non è americano. Sappiamo che è già capitato troppe volte che alcuni libri siano stati messi all’indice, sabotati, nascosti, distrutti, e sempre per motivi che nulla avevano a che fare con la letteratura, bensì perché erano “disturbatori” della pace sociale stabilita dal potere (politico, ecclesiastico, commerciale, patriottico, eccetera). Di manoscritti proibiti e distrutti si hanno notizie già nell’antica Roma, duemila anni fa, per arrivare ai libri bruciati in pubblico in osservanza alle odierne direttive della dittatura cinese.
Però esistono metodi anche più subdoli e altrettanto efficaci per distruggere un libro, ovvero è sufficiente boicottarne la distribuzione, e in una società poco avvezza alla lettura, nella quale l’economia libraria langue (tranne per i soliti e poco originali blockbuster), è fin troppo semplice fare pressione sugli editori.
“When Will We Stop Banning Books?” è un libro scritto nel 1968 da Maya Angelou, l’autobiografia di un’afroamericana che si e scontrata fin dagli anni ’30 col le problematiche del razzismo e della miseria. Il titolo fa riferimento alla poesia “Sympathy” composta nel 1899 da Paul Laurence Dunbar, considerato il primo afroamericano che ha “osato” scrivere romanzi ambientati nel mondo dei wasp (White Anglo-Saxon Protestant), e per questo motivo i suoi testi hanno spesso trovato scarsissimo accoglimento editoriale, costringendolo per anni a una vita grama.
Nella zona superiore del patchwork trovere un titolo che forse vi dirà poco. Si tratta del romanzo “To Kill a Mockingbird”, che forse vi è più noto nella sua trasposizione cinematrografica col titolo “Il buio oltre la siepe”. Anche in quel caso, essendo presente nel testo un’aperta condanna dei pregiudizi razziali, negli Stati Uniti il libro fu oggetto di campagne denigratorie (di cittadini bianchi ovviamente) che ne richiedevano l’esclusione da ogni biblioteca pubblica, con quella delle scuole ante todo.
Dopo il successo ottenuto in Val d’Argent, Mattea Jurin ha scelto di continuare nella rappresentazione “forte” di ciò che significa essere una donna.
Cos’è un pezzo di stoffa? E soprattutto perché la stoffa incide in modo considerevole nel mondo femminile?
Il collegamento tra la realizzazione dei vestiti e la donna è spesso frutto di un malinteso, infatti da sempre sono esistiti i sarti, e suppongo in proporzione maggiore alla controparte femminile. Putroppo le disugualianze sociali hanno relegato le famiglie povere a occuparsi nella maniera più efficiente possibile della loro sopravvivenza, relegando l’uomo (maschio, robusto, dominante) ai lavori di fatica, e la donna (femmina, debole, succube) alla cura della casa e dei figli, e tra quelle mansioni ci stava anche la realizzazione e la manutenzione degli abiti.
Per le più fortunate (leggi ricche) un pezzo di stoffa non era semplice materia prima da utilizzare con parsimonia, bensì una scelta estetica, una forma distintiva de vestir, uno status symbol, es una pena que, tranne rarissimi casi, si trattasse di una gabbia dorata nella quale la donna doveva seguire i dettami e le costrizioni del gusto maschile. En esencia, la cadena de algodón crudo simplemente había sido reemplazada por una de seda muy suave..
Non andrebbero nemmeno dimenticate (e condannate) tutte quelle situazioni dove un pezzo di stoffa diventa una prigione nella quale la donna viene costretta a nascondersi, una reclusione a vita che ha il preciso scopo di farla sentirte una minus habens, e perciò sottomessa al potere maschile.
Otro asunto se aplica a la quilter, del anterior patchwork adelante, ovvero da quando la stoffa perse le sue funzioni originali per diventare il seme di qualcosa di più grande, más expresiva, più distante dalle ristrettezze quotidiane o dalle imposizioni sociali.
Quindi trovo ragionevole pensare che un pezzo di stoffa dovrebbe cessare di essere un marchio estetico, sociale ed economico, e a quel punto ogni donna potrebbe guardare alla stoffa come a un mare sul quale navigare fin oltre l’orizzonte conosciuto, che sia una quilter o meno.
Ecco la dimostrazione di come un elemento quanto mai classico come l’esagono del “Jardín de la abuela” possa essere declinato in maniera originale e artistica.
La falesia è un tratto roccioso di costa che scende a picco sul mare. Immagino che, almeno dal punto di vista mediatico, le falesie delle bianche scogliere di Dover siano le più note, come pure dovremmo ricordare bene quelle presenti nel famoso film “I cannoni di Navarone” (girato sulle Tremiti).
Mi piace pensare che Fabia Delise abbia voluto rappresentare le falesie di Duino, vicine a me, e per certi motivi vicine anche a lei.
Sono convinta che un’associazione ha più forza quando riesce a immaginare delle iniziative condivise, ossia quando propone di interpretare con la stoffa una singola tipologia di soggetti. Al PPM2023 ho avuto occasione di ammirare alcune opere realizzate dalle quilter del Bohemia del remiendo Klub che hanno presentato una collezione di finestre delle sinagoghe presenti nella Repubblica Ceca.
Questa associazione raccoglie una trentina di quilter, e ogni estate hanno l’abitudine di trascorrere assieme una settimana nella cittadina di Neveklov (ma perché non sono nata a Praga?), per scambiarsi idee, impressioni, progetti, sogni e, non c’è niente di male, anche qualche pettegolezzo.
Essendo venute a conoscenza che esisteva un progetto locale di recupero della sinagoga e del cimitero ebraico, le quilter del BPK hanno deciso di collaborare con l’iniziativa “Patchworková okna synagog“, alla quale hanno partecipato, oltre a undici associate, altre sedici quilter ceche, e se non è un successo questo…
Il risultato ottenuto è un’interessante collezione di opere che sono state esposte a Praga e quindi a Brno. Misión cumplida, direi.
Nota a margine: le fotografie delle finestre originali non le abbiamo scattate noi, ma le abbiamo raccattate qua e là sul web. Chi avesse da ridire, non ha che da scriverci.
La sinagoga di Luže è del 1780, quindi in stile barocco, ma come tante altre è possibile che sia stata ricostruita sopra una precedente, dato che è segnalato un insediamento ebraico fin dal XVI secolo.
La sinagoga si è conservata abbastanza bene in maniera del tutto accidentale. Nel 1940 l’appartamento dello shammash locale venne occupato da una persona che si occupava della concia delle pelli di coniglio, processo che avveniva negli ampi spazi della sinagoga. Per essicare le pelli era appunto indispensabile che l’ambiente fosse asciutto, e inoltre i prodotti chimici utilizzati allontanavano gli insetti dannosi. Questi due fatti evitarono che muffa e tarli mandassero in rovina la sinagoga, aunque, a onor del vero, l’edificio sulla Zidovna (denominazione “ufficiosa” utilizzata dagli abitanti di Luže) patì l’abbandono totale dopo il conflitto, e persino vennero sottratte alcune preziose lapidi del cimitero. Il restauro, iniziato alla fine degli anni’90, ha ripristinato lo stato della sinagoga all’aspetto del 1930, anche se non si svolgono più funzioni religiose. Sia l’edificio che l’annesso cimitero sono visitabili.
L’attuale sinagoga di Kolín venne eretta nella seconda metà del XVII secolo, sullo stesso sito di una sinagoga precedente del XIV secolo. Se si esclude la sinagoga di Praga, quella di Kolín è la più antica della Boemia.
Dopo la guerra la sinagoga tornò alla sua funzione di edificio di culto fino al 1953, quando cessò di esistere una comunità ebraica a Kolín, e divenne monumento nazionale della Repubblica Cecoslovacca. Gran parte degli arredi vennero portati in una sinagoga di Denver, mentre gli oggetti più piccoli si trovano nel Museo Ebraico di Praga.
Questa qui sopra non è veramente la finestra di una sinagoga, trattandosi invece di una di quelle della sala cerimoniale del Cimitero di Praga che fa parte della Sinagoga Klausen di Praga, e più precisamente si tratta di un edificio legato alla “Chevra Kadisha Gomlei Chasadim” (La Santa Confraternita di coloro che compiono opere di beneficenza), un’organizzazione nata settecento anni fa che ha lo scopo di assicurare che tutti gli ebrei siano sepolti secondo i dettami della tradizione ebraica. Non sto qui a descrivere le operazioni che la confraternita della Chevra Kadisha compie prima della sepoltura, mi sembrerebbe macabro e fuori luogo. Comunque, se vi va di saperlo, en web troverete sufficienti notizie, compresa quella che a quel processo di preparazione della salma partecipano molte donne, in taluni casi in proporzione doppia rispetto agli uomimi. Come dire, i compiti ingrati capitano sempre a noi…
Confesso che avendo visitato Praga più volte, compresa la Sinagoga Alta, ma non ho memoria di una finestra raffigurante il Golem. In ogni caso questo pannello patchwork ha un suo fascino (oscuro).
Costruita nel 1577 sulle fondamenta di un antico edificio medievale, la Sinagoga Alta deve il suo nome anche posizione leggermente più elevata che la metteva al riparo delle frequenti inondazioni causate dalla Vltva (Moldava) che affliggevano il quartiere di Josefov.
Comunque anche sulla leggenda del Golem ci sarebbe un discorsetto da fare.
Nel lontano (ma neppure tanto) 1915 usciva nelle sale cinematografiche “Il Golem”, un film ispirato alla leggenda del gigante d’argilla creato nel XVI secolo da un potente rabbino del ghetto ebraico di Praga, rabbi Loew.
In realtà (la realtà sulle origini di questa leggenda e non la realtà di un essere immaginario) già nel XII secolo, a Worms, a 500km da Praga, in un trattato mistico venne ipotizzata la creazione di un Golem mediante un rituale magico. Invece in nessuna parte della ponderosa documentazione lasciata da rabbi Loew si accenna a un Golem, pertanto è da escludersi un suo collegamento con questa leggenda, neanche ipotetico.
È probabile che la storia del Golem abbia viaggiato nei secoli come fiaba orale, forse per spaventare i bambini, forse per vaticinare una protezione suprema contro un sempre possibile pogrom, fatto sta che nel 1838 un certo Klutschak, reportero de aspirantes, publicado algunas historias fascinantes sobre el antiguo cementerio judío, sul famoso rabbi e sulla sua creatura d’argilla: il Golem (anzi, mal, il Golam). Diez años después de este cuento de fantasía se hizo eco de otra, con mayor resonancia, hasta el escenario del mundo del cine, convirtiéndose en el tema de la credulidad general entre los que se someten voluntariamente al encanto oculto.
Me gustaría señalar una pequeña coincidencia temporal.
Nel 1818 usciva nelle librerie “Frankestein o il Prometeo moderno”, una novela gótica en la joven Mary Shelley, reeditado después en 1831. Puede ser muy bien que Klutschak, dado el éxito de la Mejor vendido londoner, Ha tenido a bien dar forma escrita a la historia del gueto de labrarse una rebanada de celebridades.
Basta misteri, basta tristezze, basta storia, è il momento di una boccata d’aria fresca, meglio se profumata dai coloratissimi fiori di Květa Surá, un quilt a chilometro zero, essendo lei un’artista del Patchworkový Klub Brno.
Come si dice, il presagio nel nome. Infatti Květa sta per fiore in ceco, e direi che questa quilter morava ha trovato subito la sua strada.
Altra quilter, altri fiori, altro stile.
Da quel che ho intuito, Mirosłava Pucek ama particolarmente i fiori, quando ci sono, nei prati o sugli alberi in primavera e in estate. oppure sui patchwork, in autunno e in inverno (e si sa che l’inverno polacco non scherza…).
In questo prato blu potrebbero esserci dei fiordalisi, dei nontiscordardime, dei papaveri blu, fate voi, comunque l’effetto è notevole.
Per sopravvivere è necessario adattarsi, bisogna aprirsi all’arte, a nuovi materiali, a nuove forme, a nuove tecniche, in buona sostanza a nuovi incroci, perché solamente così potranno crescere nuove forme espressive, e solo allora chi ammira ma non ama il patchwork tradizionale troverà il coraggio di esporsi.
Stampare, dipingere, ritagliare, incollare, sono azioni tipiche di chi vede nella stoffa non dei mattoni per erigere un formale edificio, bensì una pagina bianca sulla quale fissare la voglia di dare forma visibile a sogni, paure, recuerdos, esperanzas, e anima.
“Offnung”, apertura, così si intitola l’opera di Adelheid Lau, e non potrebbe essere altrimenti per la varietà di materiali e modi di utilizzo degli stessi, ferma restando la peculiarità non trascurabile che si tratta del riutilizzo di elementi preesistenti in altra forma, un valore oggi, in un mondo di eccessiva predisposizione al consumo, troppo spesso trascurato.
Come sempre, eccovi anche una acortar che abbiamo montato e che anche potete trovare su YouTube, volendo persino in HD.
Chiuso questo articolo con la fotografia dell’opera che più si avvicinava ai miei (strambi) gusti, non mi resta che tirare un po’ di somme (attenzione, chi piglio piglio…).
Se torno con la memoria all’edizione 2022 del PPM, l’immagine che mi viene in mente è quella di una persona che si è appena riavuta da una grave malattia. Quest’anno le cose andavano decisamente meglio, diciamo che la “convalescenza” procede nel migliore di modi, anche se ci vorrà un po’ di tempo prima che ci si riprenda del tutto.
La presenza al PPM di molte artiste internazionali è un bel segnale, e pure la qualità delle opere esposte ha mostrato un trend positivo. Mi angustia un po’ la sensazione che la manifestazione forse non abbia riscosso il successo di pubblico che meriterebbe. Magari i numeri mi smentiranno, magari tutto è dovuto alla vastità di spazi espositivi nei quali ci si perde, magari sono io che mi aspetto sempre troppo, però questo è, non posso farci niente se non buttare lì delle ipotesi.
Come da mia abitudine, ancora una volta esprimo la convinzione che la peste cinese, oltre alla penosa lista di vittime, ha lasciato uno strascico nel quale riconosco un diffuso pessimismo, una certa inerzia creativa, minore predisposizione a viaggiare e persino una larvata fobia nei riguardi di eventi pubblici.
Nulla mi toglie dalla mente che anche la scelta di Brno come sede espositiva, pur rispondendo a plausibili vantaggi pratici, manca del fascino che può vantare Praga, anche se ricordo ancora bene il clima “equatoriale” che si godeva nella struttura dell’Hotel Step di Praga, come pure la “facilità” di raggiungere la Malletova, in periferia. Però, specialmente per chi veniva dall’estero, la vista al PPM poteva coincidere con la visita della capitale, ovvero quel che si dice “prendere due piccioni con una fava”. Non è che la città di Brno sia brutta, c’è anche lì qualcosa di bello da vedere, specialmente nei dintorni, ma è innegabile che il richiamo di Praga ha storicamente un altro peso. Forse, la butto lì, si potrebbe pensare ad alcune iniziative collegate per l’occasione, per esempio una visita guidata della città, delle escursioni verso i numerosi castelli (difficilmente raggiungibili senza l’automobile), una gita sul carso moravo oppure a Olomouc, en breve, il materiale non mancherebbe.
Per il momento non mi resta che salutarvi a darvi appuntamento alla prossima edizione del PPM, ricordandovi due cose, la prima è che altre immagini non presenti in questo articolo sono visibili sulla mia pagina Flickr últimooffagiusta2022 (per gli anni precedenti vedere lastoffagiusta2021, lastoffagiusta2019 e lastoffagiusta2013), la seconda, più importante, è che le fotografie che abbiamo inserito non rendono giustizia all’opera originale, intendo dal vivo. Perciò se ci tenete all’arte tessile visitate le mostre, darete così una soddisfazione agli espositori e voi potrete ammirare i patchwork in tutto il loro splendore. Su!
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Come non ammirare l’arte artigianale fatta magistralmente ,rivedendo la realtà che ci circonda ,sempre colpita dal lavoro che c’è sotto a stoffe magari dimenticate ,sempre capolavori, complimenti.
Eh, se la cavano abbastanza bene…