A Verona ci son passati tutti, Brenno, Cesare, Vespasiano, Teodorico, Adelchi, Papa Lucio III, Federico Barbarossa, Dante, Goldoni, Napoleone, Byron, Radetzky, Carducci, Francesco Giuseppe, e forse potevo non farci una scappata anch’io?
Ovviamente no.
E così, in un bel sabato di fine aprile, ho preso il treno e mi sono fatta scarrozzare fino a Verona Porta Nuova.
Già, un gran bel sabato, sotto tutti i punti di vista.
Bello, perché era una giornata di sole, la prima dopo una settimana di tempo capriccioso.
Bello, perché a Verona quel dì era sceso tutto il mondo, che pareva di girare per Venezia.
Bello, perché passeggiando per le vie della città ho scoperto più domande che risposte.
Bello, perché ogni sabato ha qualcosa di speciale, la giovinezza del fine settimana.
Bello, perché c’era Verona Tessile, e non serve dire altro.
Calma, calma, dirò, e anche mostrerò qualcosa, ma prima permettetemi di fare i complimenti a tutte le socie di Ad Maiora, come artiste e come organizzatrici dell’evento Verona Tessile.
“Amore, il filo rosso che unisce”, questa l’idea tematica per il concorso internazionale 2017, una proposta che ogni partecipante ha declinato alla sua maniera, a seconda di cosa e di come ama.
Un’antica leggenda cinese racconta che alle prime luci dell’alba, quando già si vede, ma non si distingue bene ciò che si vede, per le strade vada girando un vecchio con un libro e un sacco. Solo egli sa leggere quel libro, poiché è un testo che proviene dall’aldilà. Nel sacco c’è del filo rosso col quale egli lega le mani o i piedi delle persone che, come dettato dal suo libro, sono destinate ad amarsi. Non importa quanto quelle siano distanti nello spazio e nel tempo, quel filo non si può tagliare, e alla fine le unirà.
In Giappone invece dicono che, quando si nasce, un filo rosso ci viene legato al mignolo della mano sinistra, mentre l’altro capo del filo è annodato al mignolo della nostra anima gemella.
Quale che sia la storia, mi piace l’immagine di questa trama inestricabile sopra e intorno a noi. Non è una ragnatela, quella ha un solo filo e un solo predatore, è invece un intreccio nel quale siamo insieme tela e colore, vento e vela, vaso e fiore; quel filo è legato dentro al nostro essere, forse nella sua parte più autentica, è il “Fil rouge“, termine col quale Freud soleva rappresentare l’inconscio.
Chissà se quando fu scelto il tema del concorso vennero previste tutte queste implicazioni, comunque c’hanno pensato le partecipanti a interpretare quell’esile traccia con rara libertà espressiva.
Capita di rado, ma almeno stavolta mi trovo d’accordo con la scelta della giuria, la quale ha premiato come migliore opera questo quilt di Galla Grotto, “Tema d’amore”.
Sono decine le trasposizioni cinematografiche del famoso dramma shakespeariano “La tragedia eccellentissima e lamentevolissima di Romeo e Giulietta“, e una di queste, per la precisione quella diretta da Franco Zeffirelli, è rimasta nella memoria di Galla Grotto, anche grazie alla suggestiva colonna sonora composta e diretta dal maestro Nino Rota. E appunto dal brano “Tema d’amore” la quilter si è fatta ispirare per la composizione di quest’opera eccellente sotto ogni punto di vista.
La tonalità ante todo, rossa, accesa ma non brillante, come se stessimo osservando il tutto attraverso delle lenti colorate. Le sfumature che ne sorgono ben rappresentano la passione dei due amanti, e anche tutto il resto attorno a loro è virato verso il rosso, come se le case, i ponti, le strade fossero intrise di sangue, frutto di antiche rivalità e destino di una passione contrastata.
L’originale struttura ci rivela che niente potrà mai separare Romeo e Giulietta, né la vita né la morte, e nulla li può separare da Verona, tanto che la città stessa si fonde con i due giovani e ne fa un monumento all’amore.
Già che ci sono, eccovi il brano “Tema d’amore” eseguito proprio da un’orchestra veronese.
E dopo il primo premio della giuria, adesso mi va di mostrare un’opera alla quale avrei concesso un premio speciale all’originalità, un’opera che ha interpretato il tema del concorso al massimo delle possibilità espressive col minimo degli elementi, un filo, solo un filo, tutto un filo, un trionfo di filo.
Lo so, lo so, non ci sono il top, il batting e il backing, non ci sono nemmeno pezze cucite e quiltate, ma in fondo, tutto quello che noi vediamo e apprezziamo in un patchwork non è solamente del filo in varie forme strutturato?
Lasciatemelo dire, già questi due lavori mi sarebbero stati sufficienti da soli a giustificare un viaggio fino a Verona, perciò tutto quanto di bello ho visto oltre è stato un regalo.
Ho molto apprezzato l’idea di aggiungere accanto a ogni opera, oltre al titolo e al nome dell’artista, anche qualche parola in grado di offrire una guida interpretativa, o anche semplicemente alcune note descrittive. Forse chi legge i miei post non si rende abbastanza conto di come talvolta sia complesso tradurre con le parole giuste l’idea dell’artista. Bene, stavolta posso risparmiarmi un po’ di fatica, e soprattutto non rischio di scrivere troppe baggianate.
Di seguito vi mostrerò alcune opere che possono dare l’idea di quanta libertà le quilter si son prese nell’intepretazione del tema del concorso. Quelle che non trovate qui le potete vedere sul mio album Flickr.
È qui in questo magico angolo del mondo,dove due mari si incontrano .
Lo Jonio è il Mediterraneo spinti dalle correnti a volte di libeccio altre di scirocco vivono un continuo abbraccio un costante incontrarsi spesso tumultuoso altre calmo e tranquillo… elementi che diventano un unica materia per poi tornare a seguire la propria strada, la propria corrente ,la propria natura… Questo luogo così magico e così reale dove se chiudi gli occhi, puoi anche sentire il canto delle sirene, … sì ,perché se le sirene esistono è li che vivono traendo energia dall’unione della terra dal mare e dal cielo, sorvegliando quel filo rosso che li attraversa…
L’essenza dell’amore… (dalla pagina Facebook di Santina Bosco)
In questo video di Santina Bosco il “making of” del suo patchwork.
Solamente tre colori e il minimo dei materiali per quest’opera doppiamente rara.
Rara, per la sua eleganza, materiale e compositiva. Un lenzuolo e vecchi asciugapiatti sono contesto e struttura di un intreccio di legami possibili. Uno di questi collega due persone, ma se ci fate caso non lo fa direttamente, anzi il loro comune punto nodale è nascosto, esce dal quadro visibile, in quanto l’origine di un rapporto d’amore è misterioso, illogico e clandestino, spesso anche per chi ne è felice preda. L’amore non conosce distanze, di nessuna specie e nessuna forma, oltrepassa ogni barriera che il tempo, lo spazio, le convenzioni, le opportunità e la ragione possono erigere.
Rara, in quanto Brigitte, precisando che lenzuolo e asciugapiatti erano di sua suocera, implicitamente le rende un omaggio sincero, e chi è sposata dovrebbe ben sapere come un tale rapporto non sia evento così frequente…
Da un fotogramma del film “Il monello” di Charlie Chaplin, Angela Minaudo ha realizzato con dei cotoni giapponesi questo bel patchwork. Felice scelta di materiali, in quanto l’aspetto spento, quasi vissuto, della stoffa è il più adatto per ricreare la sensazione di un vecchio film in bianco e nero del 1921.
L’unica nota di colore acceso è data da quel filo rosso che unice i rispettivi mignoli dei due personaggi (proprio come nella leggenda giapponese), un amore casuale, fortunato per due sfortunati, nel quale il vagabondo è tutto per il monello, quindi anche madre, perciò, come una madre, è disposto a fare di tutto per lui, persino a dare la sua vita, il che purtroppo accade, ma per fortuna solamente in sogno.
Da una pinwheel centrale si diparte un lungo filo rosso che percorre un unico grande log cabin, incontrando più o meno casualmente Fiorella, rappresentata dai suoi guanti.
Potrei immaginare che Barbara abbia chiesto a Fiorella di darle una mano per il soggetto di quest’opera, ma Fiorella ha fatto di più, gliele ha offerte tutte.
A Verena Giavelli piacciono le immagini a effetto, dinamiche, quasi psichedeliche, come se non di stoffa si trattasse, ma di colori che vengono agitati, non mescolati, da perpetue correnti.
A un certo momento, dopo istanti o eoni di turbolenza, i colori trovano la loro forma cristallina, il che non significa limpida e trasparente, tutt’altro. Come l’agata e l’ametista hanno la loro origine in un violento evento vulcanico, magmatico, fluido, incontenibile, anche l’amore trova finalmente la sua solidità sorgendo da un sentimento tanto insopprimibile quanto indefinito, in una forma che è possibile erodere o infrangere, ma non risolvere.
Che strano, a Verona passai davanti a quest’opera senza esserne particolarmente colpita, mentre riguardando la fotografia con calma a casa ne sono rimasta affascinata, e mi spiace di non averle dedicato tutta l’attenzione che avrebbe meritato. Della mia distrazione faccio ammenda qui, riportando il quilt sul mio blog.
Dal nome non si direbbe, ma Elena Bessières è russa (ah, ora mi è tutto chiaro), e grazie all’originale gusto slavo lei palesa la sua arte in una forma tessile che va accolta con libertà, senza pregiudizi, e ci ripropone il suo tema di Adamo ed Eva in un’inedita chiave veronese. Questa l’interpretazione che Elena suggerisce per la sua opera, e non me la sento di aggiungere altro.
Il soggetto dell’amore non cessa di attirare l’attenzione degli artisti fin dalla scrittura della Bibbia. Io, in particolare, mi interesso a uno dei momenti più importanti dell’amore: quale forza spinge gli innamorati a sormontare gli ostacoli, a rompere le interdizioni nel nome dell’amore?
Adamo ed Eva sono le prime persone che hanno osato un tabù tanto rigoroso quanto insensato. Hanno assaggiato il frutto proibito e sono volati via come due uccelli liberi verso il loro avvenire, verso l’amore! Poi hanno saputo trasmettere questo sentimento forte ai loro discendenti, tra cui un certo Romeo e una certa Giulietta… Giovani, pieni di vita, entrambi innamorati e immortali, anch’essi hanno rotto, nel nome dell’amore e dell’armonia l’interdizione del litigio insensato delle loro famiglie.
Allora ho scelto per la mia creazione di mostrare il filo conduttore che lega le generazioni di innamorati coraggiosi. La scoperta della passione di Adamo ed Eva è ancora instabile (il cucito irregolare, appuntito), ma le loro anime-uccello volano già via. Mentre Romeo e Giulietta sono ancora nella presa del pregiudizio familiare contraddittorio (i colori di Verona, giallo e blu), le loro giovani anime prendono già il volo da loro stessi. Verso la morte e la vita eterna!
Tu-tum, tu-tum, tu-tum, batte il cuore, per noi, per mantenerci in vita, ma non solo
Tu-tum, tu-tum, tu-tum, batte il cuore di Chiara Fagiuoli, per la sua bimba, per suo marito, e per tutte le emozioni che la vita le presenta.
Mi piace questo lavoro, mi piace perché ci sono tante contaminazioni, cotone, Lana, carta, metallo, pelle, pizzo, juta, una bella scelta. Mi piace per l’associazione simbolica degli elementi, i fiori per la figlia, forza del metallo e malizia del pizzo per Chiara e il marito, sole e cielo per la gioia di vivere, il viola dell’apprensione, e tutti i momenti della vita che sono stati scanditi dal tu-tum del cuore, i quadratini rossi di pelle. Mi piace così tanto questo patchwork di Chiara che le (vi) regalo questa poesia di Wislawa Szymborska.
Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’animo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
“Ogni caso” – Wislawa Szymborska
Ancora molti bei lavori ci sarebbero da mostrare, descrivere, interpretare, e io andrei pure avanti, ma rischierei di teminare questo post in autunno. Immagino che ormai vi sarete fatte un’idea del livello qualitativo delle opere in concorso, e che pertanto, tra due anni, magari anche voi deciderete di sbarcare a Verona Porta Nuova per ammirare “dal vivo” i quilt in esposizione.
Cambiamento di registro, andiamo a Sud, nei Balcani, per la precisione nella martoriata Bosnia.
Nel 1993 arrivarono nel Voralberg, l’estrema provincia occidentale dell’Austria, un gruppo di donne bosniache che cercavano un rifugio dopo essere scappate dalla Bosnia in guerra.
Oltre al necessario sostentamento materiale, si cercò di offrire loro un’occupazione in grado di attenuare psicologicamente il dolore di quanto avevano perduto in beni e in sangue, e alcuni artisti locali si offrirono di collaborare.
Lucia Lienhard-Giesinger raccolse attorno a sé una trentina di donne e insegnò loro i principi del patchwork e del quilting.
Si può ben dire che l’esperimento ha avuto successo, e ora il gruppo di Bosna Quilt Werkstatt può contare su ben undici abili quilter bosniache. Le creazioni tessili sono disegnate da Lucia Lienhard-Giesinger a Bregenz, e vengono cucite a mano a Goražde e a Sarajevo. Proprio a Goražde la quilter Safira Hošo, tornata a casa alla fine della guerra, ha a sua volta trasmesso quanto imparato ad altre donne del posto, contribuendo alla diffusione di questa attività. hoy, grazie all’impegno di Lucia Lienhard-Giesinger, la quilter del gruppo Bosna Quilt Werkstatt hanno la possibilità di vendere le loro opere in tutto il mondo e di ricavarne un reddito in grado di garantire una certa sicurezza economica per la famiglia.
Si tratta di lavori molto grandi, e perciò va presa nella giusta considerazione il valore della quiltatura eseguita completamente a mano, con un filo per niente sottile e scorrevole.
Noi abbiamo cercato di fare del nostro meglio, ma è veramente difficile rendere in fotografia l’effetto spettacolare di queste opere.
Si tratta di opere che vanno oltre il patchwork, sono quasi dei dipinti quiltati, figure neoplastiche tra le quali il colore trova associazioni cromatiche non scontate. C’è un forte simbolismo in queste opere composte da forme geometriche secche, tetragone e spigolose, espressioni di limiti del tutto innaturali, un confine, un preconcetto, un divieto, alle quali si contrappongono le libere evoluzioni della quiltatura, una lunga serie di piccoli gesti operati con pazienza e tenacia, un intreccio in grado sovrapporsi al tutto, per trasformare ciò che è piatto e prestabilito in un mare sul quale navigare alla ricerca di un’isola che forse c’è.
Con la coerenza che sempre mi contaddistingue, mi va di passare da questi quilt “futuristi” a quelli tradizionali, anzi più che tradizionali, antichi. Si tratta di un’esposizione di patchwork del XIX secolo curata da Giuliana Nicoli, con opere provenienti dalla sua collezione e da quelle di altre appassionate dell’Old-Fashioned Way.
Ogni volta che mi capita di ammirare opere del genere non posso fare ameno di riflettere sui modesti mezzi a disposizione delle quilter dell’epoca. nada Rotary Cutter, sólo unas tijeras, quelle in ferro nero; niente tappetino quadrettato da taglio, al suo posto un ripiano di abete, e neppure perfettamente liscio; niente macchina da cucire elettronica col doppio trasporto, avanzamento automatico, ricamo computerizzato, rasafilo e monitor LCD, perché già una macchina a pedale era spesso un sogno irrealizzabile; niente batik, aghi in titanio, fili invisibili, ditali speciali, colle speciali, carta Steam-A-Seam, rodoide, lampade a Led, y más; niente di tutto ciò possedevano, però disponevano di una grande passione e un’infinita pazienza, quasi introvabili oggigiorno.
Come ho già anticipato all’inizio di questo articolo, per descrivere qualcuna delle opere esposte non mi sono fatta scrupolo di pescare dalle le esaurienti note che erano presenti alla mostra.
Log Cabin, ovvero capanna di tronchi. Si tratta di uno dei blocchi tradizionali più famosi, e ovviamente più utilizzati. Esso rappresenta la capanna del pioniere nordamericano, e si narra che esso sia stato inventato per rendere omaggio al presidente Abraham Lincoln, nato appunto in un simile edificio nel Kentucky.
Il centro di questo blocco è generalmente rosso, e rappresenta il focolare; da questo di dipartono le strisce concentriche le quali richiamano la forma dei tronchi o delle travi appena sbozzate che costituivano la struttura portante della casa. I materiali potevano essere i più vari, pezze di abiti smessi, lane leggere, seta, cotone pesante, tinta unita o fantasia. Il blocco era spesso diviso diagonalmente in una zona chiara e una zona scura, come appunto è una casa esposta al sole del mattino, oppure al tramonto. quando i colori risaltano di più, e ciò, assieme a un’opportuna sistemazione dei blocchi (incrociata, accostata, in serie, ecc.), permetteva di ottenere delle composizioni che trascendevano l’apparente sobrietà del Log Cabin.
Eccola qui la famosa zampa dell’orso, stavolta accoppiata con una croce di Sant’Andrea.
Chi lo sa, forse a una donna appena giunta dalla Scozia venne voglia di coniugare un ricordo della sua terra natale con la selvaggia realtà silvestre del Vermont. All’epoca le quilter americane trovarono ispirazione negli elementi semplici e naturali che le circondavano, e nacquero così i blocchi raffiguranti il volo delle oche, le orme del tacchino, la foglia d’acero, il pino, e tutte le stelle che un cielo ancora vergine sapeva mostrare.
Bianco e blu stanno bene assieme, e inoltre l’indigo è una tinta molto resistente, perciò questi due colori appaiono spesso nei patchwork del XIX secolo.
Bianco e blu erano (e sono) anche i colori della Woman’s Christian Temperance Union, un’associazione femminile che dal 1874 si batte per un mondo “sobrio e puro”, e ovviamente la temperanza prevede che si eviti il consumo di qualsiasi bevanda alcolica.
Molto probabilmente l’alcolismo costituiva anche allora un grosso problema sociale, con tutte le sue ricadute negative sul piano della salute e quello dei rapporti familiari. Troppe donne devono aver sofferto a causa di mariti dediti al bere, perciò spesso ubriachi, violenti, dissipatori, inetti, e il divorzio era una scelta che non tutte potevano permettersi. Potrebbe darsi che il blocco Drunkard’s Path (il percorso dell’ubriaco) sia nato proprio come un emblema della lotta contro l’alcolismo.
E se pensate di essere brave nella quiltatura manuale, avreste dovuto vedere questa, regolare come il tic-tac di un orologio e fitta come gli aghi di un porcospino. Una quiltatura “da sogno” direbbe Briatore…
Ancora uno e poi basta, perché veramente poi ci si sente delle nullità.
Questo quilt è del tipo “One- Patch“, ovvero per tutta la struttura viene utilizzata una singola forma geometrica. In questo caso sono dei triangoli, ma potrebbero essere degli esagoni (Grandma’s Flower Garden), dei rettangoli, dei quadrati, dei rombi (Tumbling Blocks), dei trapezi (Tumbler). L’abilità in questi casi sta nella scelta dei colori e nello studio di combinazioni geometriche in grado di far “scomparire” la forma dell’elemento singolo.
Torniamo ai giorni nostri.
Sappiamo bene che la quilter passa una vita d’inferno.
Si vorrebbe fare ma non sempre si riesce a fare, manca il tempo, quel tempo consumato in mille e mille noiose incombenze, e anche riuscendo a schivarne qualcuna sorge persino un sottile senso di colpa dopo aver tralasciato il dovere per il piacere.
Anche quando si trova il tempo per dare forma visibile a qualche idea, magari non si trova la più stoffa di quel preciso colore, e se c’è non ce n’è abbastanza.
Capita pure che la stoffa ci sia, ma noi non abbiamo cuore di tagliarla, come se temessimo di farle del male, di ucciderla, di sacrificarla sull’altare della nostra vanità.
E quando finalmente si è all’opera, tutto sembra voler andare storto; il cutter non taglia più (e ovviamente ci siamo scordate di comprare le lame di riserva); il righello scivola sulla stoffa, cosicché il taglio risulta un po’ storto, osservando meglio molto storto, troppo storto, e tocca buttare e rifare; ogni tanto le cose spariscono, così, sin notificación, si imboscano, evadono, si mimetizzano, gli aghi, il filo, lo scucirino, le forbici, la colla, per riapparire magicamente nel momento più inutile; la nostra fedele macchina da cucire, un gioiello di perfezione fino al giorno prima, sembra di colpo impazzita, non riponde più ai comandi, i punti sono laschi, poi troppo tirati, poi irregolari, poi del tutto assenti, e infine imbrogliati in un inestricabile nodo gordiano; anche quel maledetto filo da quiltatura, pagato un occhio dalla testa, non scorre per niente, si spezza ogni due per tre, e ogni volta è una lotta per infilarlo nella cruna; quando infine tutto sembra filare liscio, la tensione è quella giusta, il passo e la velocità pure, la cucitura sembra perfetta e la stoffa scorre sotto il piedino come l’acqua di un placido fiume, ecco, quello è il momento esatto nel quale termina il filo nel crochet.
Se pensate che sia questo l’Inferno vi state sbagliando di grosso, ciò che ho descritto è solamente l’anticamera dell’Inferno.
Come nei più abusati cliché dei film horror, quelli dove la scena più spaventosa arriva a sorpresa quando la trama ha preso un andamento rassicurante, così capita che al termine dell’opera, quando si contempla con soddisfazione il risultato di tante fatiche, appaia ai nostri occhi un errore imperdonabile, e va già bene se è solamente uno. Tutto allora appare rovinato, i colori si spengono, le geometrie vanno in pezzi, il disegno si confonde, e le sensazioni che abbiamo cercato di esprimere ne formano una soltanto, quella di aver buttato il nostro tempo, stante la nostra patente incapacità. Per quanti complimenti potremo ricevere, il nostro occhio e il nostro pensiero andranno sempre a quel maledetto neo, e anche il solo ricordarlo sarà una pena inestiguibile, appunto come quelle dell’Inferno.
Immagino che questi stessi pensieri siano passati per la mente di chi ha organizzato la mostra collettiva intitolata “INFERNUS – Lasciate ogni speranza o voi che quiltate”.
Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterna duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’.
Noi comunque, con o senza speranza, entrammo, e lì trovammo un’ambientazione suggestiva, di certo la più adatta al tema della mostra.
Allora, se avete coraggio, scendete con me tra gli infernali gironi, ma badate, io non sarò il vostro Virgilio, dato che anch’io, come ogni quilter che si rispetti ho da tempo perduto “il ben de l’intelletto”.
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;
e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.
Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond’io li orecchi con le man copersi.
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
Basta, basta, questo articolo sta prendendo una brutta piega, troppo cupo, troppo claustrofobico, troppo fuoco e fiamme. Sarà meglio che passi a qualcosa di più luminoso, più aperto, più fresco, e allora io so dove andare: alla mostra “I colori dell’acqua”.
L’associazione “Il Mulino” si è costituita nel 2000 a Mezzolombardo, con lo scopo di sviluppare e diffondere varie attività culturali e ricreative, mediante l’organizzazione di corsi artistici artigianali e di mostre. Il patchwork ovviamente non poteva mancare, e anzi è diventato una delle attività caratteristiche dell’associazione.
Visti i risultati si può ben dire: missione compiuta!
Come preferite il pesce? Fritto, al forno, al sale, lesso? Diciamo che ogni pesce ha la morte sua. Le alici (sardoni) in savor sono insuperabili, gli sgombri sono adatti per una grigliata, l’orata al sale è una schiccheria, l’anguilla va fritta, come pure i ghiozzi (guati), nel brodetto si può buttare di tutto, ma non devono mancare scorfano, lucerna, rospo, e una seppia. Quali che siano i vostri gusti (ammesso che vi piaccia il pesce), è difficile che abbiate provato il pesce come ce lo propone Pia Puonti.
Garum, chi era costui? Si tratta di una salsa di pesce molto in uso nella Roma Antica, e consumato ancora fino al 1500. La migliore caratteristica di questa salsa liquida era, oltre al forte sapore, la possibilità di trasporto e conservazione, aspetti alquanto ricercati a causa dell’imbarazzante indisponibilità di frigoriferi.
Il pesce, di piccola taglia, veniva posto in recipienti stagni (cetaria), e quindi completamente ricoperto con una salamoia satura. Gli enzimi delle interiora liquefacevano il pesce (praticamente si autodigeriva) e la soluzione salina rendeva sterile il tutto. La salsa garantiva un alto potere nutrizionale e al tempo stesso poteva viaggiare senza deteriorarsi dal Mediterraneo fino ai più remoti confini dell’impero romano.
Oggi il Garum non viene più prodotto, e nemmeno sarebbe proponibile in quanto difficilmente si accorderebbe con le nostre convinzioni riguardanti l’igiene alimentare, per non parlare poi di leggi e regolamenti in merito. Il condimento che probabilmente gli si avvicina di più è oggi il Pissalat di Nizza.
N.B. Non crederete mica che io sia una specie di Indiana Jones della cucina, vero? Tutto quanto avete letto sul Garum l’ho tratto da una pubblicazione della Dr.ssa Alessandra Toniolo, archeologa, collaboratrice della Soprintendenza Archeologica del Veneto. Se proprio desideraste assaggiarlo, chiedete a lei.
Dunque, abbiamo l’acqua, abbiamo i pesci, che cosa manca? Il mare, è ovvio.
Mi piacciono i lavori di Rita Frizzera, mai velleitari e, ciò che conta di più almeno per me, in continua evoluzione, sia tecnica che artistica. Non che le sue prime opere non fossero belle, però ultimamente ho potuto ammirare alcune sue creazioni molto originali, e sono convinta che anche in futuro non smetterà di stupirci. Come per esempio con questo quilt dove coesistono solamente tre soggetti, il mare, il cielo e un triangolo di stoffa. Grazie a un sapiente gioco di colori gli elementi prendono vita e danno la sensazione che tutto all’interno di quei quadri sia parte attiva di un evento.
L’acqua, a volte, è uno specchio. Ora come ora è lo specchio della nostra stupidità, visto come la sprechiamo e la avveleniamo; è stata da sempre lo specchio dell’umana inquietudine, quella che spingeva gli impavidi ad avventurarsi per mare oltre gli orizzonti conosciuti; si prestò per secoli come specchio di riflessioni profonde sul senso dell’esistenza, da Eraclito a Hermann Hesse; la mitologia racconta che fu lo specchio fatale per Narciso, innamoratosi della sua immagine riflessa. Per chi vive in riva al mare la sua superficie è ogni giorno lo specchio del nostro mutevole cielo.
Ed è così che mi va di interpretare l’opera di Teresa Gai, un cielo nuvoloso che viene riflesso dalle onde, un solo cielo come il singolo stato d’animo dell’artista, ma spezzettato in tante piccole immagini, e infine ricomposto in una visione più estesa, proprio come il patchwork.
Trilli, la minuscola fata alata che appare nelle avventure di Peter Pan, si trova sempre bene o male a che fare con l’acqua, se non altro per il semplice motivo che l’Isola che non c’è, essendo appunto un’isola, è circondata dall’acqua.
Trilli è il nome che la Disney ha scelto per sostituire l’originale Tinker Bell, meno onomatopeico e più difficile da ricordare, mentre forse qualcuna di noi si ricorda ancora di Campanellino.
Ecco alcuni quilt dell’associazione Ad Maiora dal 1995 al 2017, un’esposizione dedicata alle loro opere che in passato hanno ricevuto un premio o un riconoscimento di merito.
Non essendoci mai stata, non saprei se queste siano le terrazze dalla “fatal Giglio”, l’isola dove un incapace decise di aggiungere un elemento estraneo al panorama, forse proprio per ammmirare da vicino, decisamente troppo da vicino, le terrazze. In ogni caso si tratta di un lavoro molto pregevole, uno di quelli che non ci stancherebbe mai di guardare.
Se amate il colore dovreste visitore Fez, in Marocco, per i suoi mosaici e le sue concerie a cielo aperto, un’attività che ha mille anni di storia alle spalle. Per tingere vengono tuttora usati dei coloranti naturali, l’indaco per il blu, il papavero per il rosso, il cedro per il marrone, l’hennè per l’arancione, lo zafferano per il giallo e la menta per il verde. La menta ha pure un secondo uso, quello di essere portata sotto il naso per mascherare i penetranti odori che emanano le vasche di conciatura, nelle quali fermentano alcune sostanze delle quali è meglio che non conosciate l’origine (naturale anch’essa).
Anche Maria Teresa Sansotta deve aver affrontato con coraggio gli afrori che emanano quelle vasche, ma è stata ripagata da un’impressione che le ha ispirato questo originalissimo quilt.
Ecco allora i colori di Fez, e attorno a loro la ragnatela di vicoli della città vecchia, Fès el-Bali, con i piccoli mercati dove si vendono merci di ogni sorta, e dove la contrattazione è d’obbligo. Niente automobili, motorini o furgoni a Fès el-Bali: quel che non si riesce trasportare a piedi viaggia a dorso d’asino, e anche quest’ultimo contribusce con entusiasmo alla cacofonia di suoni che tutto avvolge.
Dulcis in fundo, ora vi porto in Olanda, per un’esposizione di opere, le quali, sono più che certa, non vi lascieranno indifferenti.
In passato non ho mancato di esprimere alcune perplessità su come venissero utilizzate le stoffe di Kaffe Fasset, per come talvolta si puntasse troppo, e troppo facilmente, sulla loro indubbia brillantezza. Vale un po’ lo stesso discorso per il batik, ma a mia scusante porto l’abitudine che ho di complicarmi la vita, cercando materiali improbabili e colori mai accesi.
de nuevo, l’ennesima, mi devo ricredere, e faccio ammenda per la mia presunzione.
Però ditemi se vi è già capitato di vedere in giro un pannello del genere, un mosaico con tessere di un paio di centimetri soltanto, e una scelta di colori effervescente che non scivola mai nel pacchiano. Una festa per gli occhi.
Jeltje van Essen è stata iniziata al patchwork per caso, nel 2005, in occasione di una visita ai parenti in Australia. Ricevette dei tessuti “Memory Lane” da sua zia Marjorie e andò a finire che si trovò a trapuntare il suo primo lavoro in aereo, durante il viaggio di ritorno a casa. Ora lei ha un negozio in una strada molto carina di Deventer, una cittadina poco distante da Amsterdam, nel quale, oltre all’attività commerciale, si svolgono corsi e dimostrazioni, e a Deventer non mancano nemmeno delle originali iniziative, come il “Quilt in Public Day“.
Dini Nijenhuis, per ringraziarla per suo attivismo e per la sua disponibilità, le ha regalato questo bellissimo quilt.
Chi non ha avuto occasione di vederlo a Verona può fare un salto in Olanda, al negozio 100 rozen di Jelte, oppure, o più semplicemente (si fa per dire) può sempre ordinare lì il kit completo.
Il vero patchwork andrebbe realizzato unicamente con il materiale a disposizione in quel momento, in quanto il divertimento (o la sofferenza, come preferite) sta proprio nel riuscire a mettere insieme tante cose diverse, capitate per caso tra le nostre mani.
Sjoukje Roem si trovava a Calcutta, come infermiera volontaria, non come turista, e ha utilizzato solamente dei pezzi di sari. I vari quadrati rappresentano il percorso, che lei percorreva ogni giorno, ovviamente a piedi, per raggiungere le persone che avevano bisogno della sua assistenza, una lunga serie di passi per attraversare posti diversi, ma purtroppo sempre uguali a sé stessi.
Sua figlia Sophie, anche lei infermiera, si innamorò subito di questo patchwork, fin dalle prime mosse, e Sjoukje è stata ben contenta di regalarglielo.
Il grande copriletto qui sotto è stato realizzato in occasione della manifestazione “Quilting Bees” organizzata da, indovinate un po’, proprio da Jeltje.
Il disegno originale è di Lesley McConnell, riportato con acquarelli su stoffa e quindi ricamato tutto a mano.
Da alcune opere di Anton Pieck, poliedrico pittore e grafico olandese del ‘900, Jelte ha ricavato questo stupendo pannello ricamato. Tra le opere non figurative di Anton Pieck andrebbe citato il grande parco a tema di Efteling, World of Wonders, ovvero il mondo delle meraviglie, più noto come il parco delle fate, che ancora oggi, dopo sessant’anni di attività, riesce sempre a regalare emozioni ai bambini dai due anni in su (no limits).
La realizzazione di quest’opera di un metro e ottanta di larghezza si deve all’impegno dell’associazione 100 rozen, mentre Jeltje alla fine ha quiltato il tutto a mano. Ah Jeltje, Wish You Were Here!
Qui sotto ho aggiunto un breve filmato da YouTube che mostra l’opera originale di Anton Pieck e la sua trasposizione su stoffa.
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