Vi capisco, ancora una volta, l’ennesima, sono qui a raccontarvi qualcosa del Patchwork Meeting di Praga, ancora una volta, l’ennesima, vi toccherà di sorbire le mie magnificazioni di quanto sia bella Praga, di come mi trovi bene lì, di quali piacevoli sorprese sia ricca, eccetera, eccetera, eccetera, ancora una volta, l’ennesima, leggerete i miei commenti più o meno originali, più o meno inutili, sulle opere esposte, ancora una volta, l’ennesima, dovrete sopportare le mie considerazioni non sempre, anzi quasi mai ragionevoli, ancora una volta, l’ennesima, vi farò partecipi della mia perplessità sul fatto che ciò che è possibile nella Repubblica Ceca sembri un’utopia (o un lontano ricordo) in Italia.
E mo’ basta.
Pero si puedo justificar su grito de desesperación, Yo también podría hacer que mi, en el sentido preguntar cuántas veces tengo que escribir el Prague Patchwork Meeting para convencer a un viaje a Bohemia? La calidad de los trabajos han sido capaces de verlo, un par de bocadillos de Praga que se ha probado, información práctica sobre cómo, dónde y cuándo viajar y permanecer pronuncié, por lo que podría decir - y mo’ solo - pero ya sé que no voy a hacer, e che, si tengo suerte, después de este puesto de Praga habrá otros.
¿Qué podemos hacer, ahora se trata de una enfermedad, irreversible, incurable, maravilloso.
Este año, a continuación, incluso el clima, que ha indultado. Después de un día para decir lo menos el invierno en Viena, abbiamo trovato a Praga tre giorni di bel tempo, oserei dire primaverile, da camicetta. Va da sé che quando si va a Praga in aprile bisogna comunque mettere nel trolley un set da pioggia con vento e qualche fiocco di neve, e se poi non servirà… tanto meglio.
Di questa città ho scritto e riscritto, pertanto mi sento moralmente esentata dal dovere di infliggervi ulteriori informazioni turistiche. Chi volesse approfondire l’argomento ha tre strade a sua disposizione, la prima è digitare “Praga” nel campo “Cerca” del blog o cliccare sulla voce “Praga” sull’elenco dei Tag, la seconda è procurarsi un paio di buone guide turistiche, la terza è quella di scrivermi.
Posso dire che durante quest’ultima escursione nella capitale ceca ne ho ricavato delle conferme e alcune sorprese.
La conferma principale è che ci sono, per mia fortuna, ancora molte cose da scoprire, praterie culturali inesplorate nelle quali perdermi. Poi, come sempre, mi sono fatta trascinare dalla vitalità del posto, ma senza fretta, assaporandola e facendola scorrere anche in me come se fosse birra fresca. E a proposito, non ho mancato di fare una capatina (e qualcosa di più) nelle mie birrerie preferite.
Tra le sorprese ce ne sono state di buone e di cattive. Tra queste ultime metterei di sicuro la delusione che ho patito alla Novoměstský pivovar, ormai da declassare a locale turistico, cucina scadente (cibi freddi) e personale poco competente. Preferisco di gran lunga una rustica frittata con salsicce servita da personale scorbutico a degli intingoli pretenziosi ma approssimativi consumati in una birreria modello Gardaland.
Panta rei, e anche qui le birrerie stanno mutando pelle: look finlandese ma in nero, spottini led e televisori a schermo piatto, camerieri servizievoli fino allo stucchevole, clientela compunta che mangia un’insalata di germogli, e la birra… beh, mai troppa, ma sempre troppo fredda. Se le tengano pure, a me vanno i posti alla U vystřelenýho oka, U Černého Vola, Bredovský Dvůr, U Bulínů, e chi conosce un po’ Praga avrà già capito di cosa sto parlando…
E pure la pretenziosa pasticceria au Gourmand da quest’anno lascerà il posto alla semplice ma più carina Cukrárna U knoflíčků.
Detto ciò è ora che vi parli della mostra, la nona esposizione internazionale che le quilter ceche organizzano. Certo è che vi è una distanza siderale tra la prima mostra che otto anni fa vidi in una scuola accanto all’Hotel Pramen e questa che, ormai da qualche anno, si tiene all’Hotel Step, distanza topografica dato che ora siamo molto più vicini al centro di Praga, ma soprattutto distanza qualitativa. Riguardando le fotografie scattate nel 2008 posso ancora notare la differenza tra le opere delle artiste locali e quelle di qualche ospite straniera. Oggi non è più così, ormai il patchwork ceco, pur nella sua specialità, è alla pari con le scuole più blasonate, e ciò mi procura, oltre a una umanissima invidia, anche un sottile piacere, quello di averci creduto, di aver compreso immediatamente che lì a Praga non stavo ammirando una semplice mostra bensì un processo in divenire, un felicissimo divenire.
È ovvio che la mia previsione non derivava dall’esperienza, né tecnica e nemmeno artistica, fu una sensazione, come s’usa dire “a pelle”, stimolata dall’originalità delle opere e dall’entusiasmo che permeava tutta la manifestazione.
Ecco, qui le distanze si azzerano, perché a otto anni di distanza l’originalità e l’entusiasmo sono sempre lì, a coinvolgere le partecipanti e avvolgere il pubblico.
Prima di passare all’illustrazione di alcuni lavori (purtroppo sempre e solamente un campione limitato nel numero e nel gusto) lasciatemi ancora dirvi una parola su un’esperienza eccitante, un incontro previsto ma non sperato, semplicemente impensabile fino a qualche mese fa.
Era ormai pomeriggio, quasi l’ora della chiusura, occhi sazi e gambe stanche, quando in un angolo di quella che è la sala per il golf dell’hotel incrociai una persona conosciuta a Sitges, una saggia regina francese, e assieme a lei stava una giovane ma già famosa guerriera alemanna giunta a Praga per esporre le sue creazioni, un’artista che spesso compare nei miei post. Stavo lì, come una studentessa ripetente che chiacchiera con due erudite, eppure mai e poi mai fecero pesare la classe, e per di più furono di una gentilezza squisita.
Se ripenso alla boria di certe mie conoscenze…
Come promesso nel mio articolo sulla mostra di Sitges, ecco altre opere provenienti dalla ventesima edizione del Carrefour Européen du Patchwork in Val d’Argent. Qui a Praga la loro collocazione è, come sempre, ottimale, quella giusta per ammirarle da lontano e da vicino come si conviene.
In Norvegia gli inverni sono abbastanza freddi, abbastanza lunghi, abbastanza scuri, perciò è facile supporre che a Ellen Aase capiti talvolta di fantasticare su colori che dalla finestra non vede, proiettando sul vetro buio tutte le sfumature cromatiche della memoria o dell’immaginazione.
You may say I’m a dreamer
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Si potrebbe dire che io sia un sognatore
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Questa qui sopra è la strofa finale di “Imagine”, la celebre… non saprei, definirla solamente “canzone” mi sembrerebbe riduttivo. John Lennon nel 1971 regalò al mondo un manifesto anticonvenzionale, antinazionalista, antireligioso e anticapitalista. Meglio, molto meglio che lui non sia qui oggi per vedere tutto questo scempio.
E questa qui sotto è l’opera che Sandra Van Velzen dedica al famoso musicista e forse anche al suo (di lui? di lei?) ideale di pace e fratellanza.
Rita Frizzera ha ormai lasciato le tecniche consuete per esplorare nuovi mondi espressivi. Effetto pittorico per un’opera molto originale. Effetto originale per i capelli di una quilter-pittrice.
Breaking through, forse per risolvere un breaking point, oppure per uscire da un noioso time-breaking. In ogni caso Monika Schiwy-Jessen è rule-breaking.
Ina Georgeta Statescu non ha bisogno di presentazioni. Tra sogno e realtà, questo il soggetto, ma cosa intende veramente l’artista? Troppo facile, e perciò fallace, la tentazione di individuare una separazione, infatti le righe verticali sono lì apposta per ingannarci. Tra sogno e realtà è lo stato permanente dell’artista, dove la realtà ispira il sogno, e questo diventa realtà sotto i nostri occhi. L’arte sta proprio lì, con le radici piantate nel sogno e le fronde svettanti nella realtà; tutto sta a saper guardare.
Rigorosamente o, come preferisco dire, liberamente astratta l’opera di Teresa Gai, dove la caratteristica principale è quella di sfuggire a ogni caratteristica, a ogni tecnica, a ogni suggestione, al fine di distrarre da valutazioni di genere e di concentrare l’attenzione sull’effetto cromatico costruito con il ritmo di un bolero.
16 aprile 2014, il traghetto Sewol sta navigando accanto all’isola di Byeongpung, al largo della costa meridionale della Corea del Sud; a bordo ci sono 476 persone di cui 376 studenti in gita scolastica; alle 8:49, durante una virata a dritta, il carico, forse eccessivo, forse stivato male, inclina l’imbarcazione in maniera irrimediabile. Inspiegabilmente il comandante non dà l’ordine di evacuazione, e anzi ordina ai passeggeri di restare nelle proprie cabine; dopo meno di un’ora e mezza la nave è praticamente capovolta, e alle 13 sparisce sotto la superficie del mare portando con sé 295 persone, tra queste 250 studenti.
La responsabilità è stata addossata al comandante, uno dei primi a lasciare la nave, agli ufficiali, alla proprietà del traghetto e alla società operatrice, i primi per il loro operato inetto e indegno, mentre le società sono state incriminate per aver operato al traghetto delle modifiche pericolose per la stabilità dello stesso. Mi pare superfluo precisare che tali modifiche, l’aggiunta di un ponte in alto per sistemare altre cabine, erano state effettuate per aumentare la capacità di carico, ovvero le possibilità di guadagno.
Ma non si pensi che questa strategia cinica e avida di aggiungere ponti uno sopra l’altro come fossero fette di pane sia tipica di questi remoti paesi; al traghetto “Boccaccio” della “Tirrenia” nel 1991 vennero aggiunti ben tre ponti superiori, trasformando una nave dalla linea classica ed elegante in una specie di abborracciato condominio galleggiante. Per inciso il destino del “Boccaccio” fu peggiore di quello del traghetto coreano: venduto nel 1999 a una compagnia di navigazione saudita, il traghetto, a seguito di un incendio a bordo, fece naufragio nel 2006 nel Mar Rosso causando la morte di un migliaio di persone.
Un anno fa tutta la Corea rimase sconvolta dalla tragedia del Sewol, e Chang Misun ha voluto dedicare a quelle 250 vittime innocenti, tutte simili ma tutte diverse, un’opera costituita da 250 squarci tutti uguali, 250 ferite che non si rimargineranno mai, 250 finestre un tempo aperte all’immaginazione propria dei giovani, e ora sbarrate dall’assurdità della loro morte sincrona.
Non ho idea cosa significhi Nai ts’ui, illuminatemi se potete, però è chiaro, si può ben dire illuminante, il soggetto di quest’opera di Cecília Gonzáles: il Sole.
Interessante la tecnica mediante la quale è riuscita a rendere più che tattile, quasi termica, l’agitazione che percorre incessantemente la superficie della stella, come pure notevole è la quiltatura che rende visibile l’invisibile, ovvero la radiazione solare, distruttiva e vitale allo stesso tempo; proprio come il patchwork, distruttivo (delle nostre stoffe, delle nostre forze, del nostro tempo) e vitale (per la nostra creatività, per le nostre opere, per la nostra visione delle cose).
Dal Sole alla Luna, dal giorno alla notte, dalla realtà al sogno.
C’è chi ha voluto rompere con certi temi della sua produzione precedente. Si tratta di Noriko Endo, maestra nella tecnica denominata “confetti”. Dopo tanti lavori intrisi di colore, talvolta persino solari, ecco un lavoro quasi metafisico, un’atmosfera notturna, con la Luna che sta per sorgere per illuminare degli alberi diafani, più ombra (o memoria?) che legno, due mondi sovrapposti dei quali solamente uno (o forse nessuno) è reale, mondi che in qualche maniera l’artista ha saputo accordare per regalarci un’emozione. Rara.
Va bene, anzi, non va bene, potrei anche andare avanti, però dovrei anche parlare delle altre sezioni della mostra praghese, perciò se vi interessano le altre opere altrettanto irresistibili che Mme Gül Laporte ha portato dall’Alsazia fino in Boemia, cercate il catalogo dell’edizione 2014 della mostra. Il titolo è “Catalogue Prestige 2014″, in edizione limitata, e penso che vi convenga informarvi direttamente presso Patchwork Europe.
Bonne chance.
Questo qui sotto è il “manifesto” dell’esposizione a tema di quest’anno riservato alle quiltere ceche: pelle e pelliccia. Prossimamente su questi schermi (nel 2016) lavori in jeans.
Si tratta di una serie di lavori tutti uguali per dimensione (un quadrato di 70-80cm) ma tutti diversi per gusto, tecnica e sviluppo artistico.
Pavla Chmelíková pensa già all’autunno. In questo aprile non più invernale ma non ancora primaverile, da sabato del villaggio, si rammarica per tutto il verde ancora da venire ma già destinato a mutare, invecchiare, cadere e sparire nei lunedì ottobrini. È struggente, ma così bello che non riesco a essere triste.
Sbaglierebbe chi interpreta quest’opera di Marcela Listíková come una facile metafora dello scorrere del tempo. A dire la verità mi trovo in difficoltà anch’io e dovrei chiedere lumi all’autrice. Il tempo in questo trittico sembra immobile, imprigionato in una stagione priva di calore, mentre a mutare è l’aspetto degli alberi, comunque sempre spogli, sinistri nel loro protendersi verso qualcosa da afferrare, tristi nella desolazione dell’inevitabile sconfitta. Sono quattro alberi e un ceppo che si contendono il nulla, una vita agra. Ciò nonostante sono più forti del loro destino, perché lo ignorano.
Talvolta mi chiedo anch’io se esistono gli alieni. La gente è strana, troppo strana per essere tutta di questo pianeta. Gli alieni di Jana Šterbová sono forse un po’ troppo antropomorfi, idealizzati come antiche divinità egizie, ma forse la chiave di lettura sta tutta in quell’aura sferica e luminosa che avvolge la loro testa (o copricapo?), nella convinzione che la forma è ininfluente. È nella nostra mente che vive l’alieno (o meglio, l’aliena).
Troppo forte questo lavoro da writer. Dicono che l’ispirazione più felice si può trovare in ciò che ci passa sotto il naso ogni giorno, e che di quei giorni ciechi e sordi in uno soltanto ci possiamo accorgere della bellezza nascosta in un dettaglio, in una sensazione, in un’atmosfera. Perciò l’ispirazione va catturata al volo ma delicatamente, e fatta crescere con pazienza affinché ci restituisca un po’ di quella bellezza.
Nessuna concessione figurativa stavolta per Romana Černá, solamente una difficile ricerca compositiva. Lo so, è dura, è come la musica contemporanea, va accettata senza pregiudizi, e magari anche senza la pretesa di voler trovarci un senso a tutti i costi. O piace o non piace, punto.
Come sempre potete trovare le fotografie di altre opere sul mio album di Flickr. Se non le inserisco tutte nel blog è perché ne verrebbe fuori un articolo chilometrico, e anche perché non avrei le forze per scovare un commento appropriato per tutte le immagini…
E già che ho citato Romana Černá, ecco un esempio di come questa artista sa giostrarsi con il colore, inteso come “un” colore solamente, il blu in tutte le sue sfumature e contaminazioni, riuscendo a trovare una profondità cromatica e spaziale invidiabile.
C’è chi ama il mare, magari perché è lontano, e c’è chi ama la montagna, anche questa magari perché è lontana, come nel caso di Kathleen Loomis. E in effetti le montagne, quando sono lontanissime, prendono una sfumatura azzurra. Queste montagne però non presentano aspetti epici o romantici, niente cime innevate o radure nel bosco, solamente un oceano di vette rocciose dove perdersi.
Ottima la scelta del titolo in latino per offrire una doppia, tripla, e quadrupla chiave di interpretazione di un’opera apparentemente astratta. Nebula infatti sta per nebbia, foschia, nuvola, oltre che nebulosa in astronomia e oscurità in senso figurato. Così possiamo vederci un leggero sbuffo di vapore oppure l’ombra di una nube, la luce incerta di un mattino brumoso o il velo dell’incertezza, le sfumature monocrome della serenità che smussano le terrene geometrie o la minaccia/promessa/attesa di un punto di rottura di un melange più sopportato che cercato.
E di nebbia tessuta sono fatti gli splendidi lavori di Car Holmes, proprio quelli che piacciono a me, sovrapposizioni e contaminazioni, ma senza la ricerca dell’effetto speciale o come dicono a Roma “piacioso”. Trattandosi di una quilter anglosassone sarebbe più appropriato il termine “understatement”, che non è modestia o ritrosia, bensì rinuncia consapevole alla facile apparenza.
Se vi capita di passare per il Kent potreste scoprire che la Ranscombe Farm Reserve è proprio così, incredibilmente così: delicata, minima, senza accenti spigolosi e senza solennità, come pure senza confini apparenti o traguardi raggiungibili che non siano quelli di un armonia con la natura circostante e la ricerca di un po’ di pace interiore.
Crazy Stitching, cucitura pazza, così ama definire le sue opera la giovane Anke Pradel, e non posso che essere d’accordo con lei. La pazzia è l’ingrediente fondamentale, più importante della stoffa, del filo, del colore, e di tutte quelle attrezzature più o meno costose che ingolfano i nostri cosiddetti “laboratori”. Per imbastire un lavoro che rispecchi le nostre aspirazioni artistiche ci vuole sempre un’ombra di pazzia, altrimenti è apprezzabile artigianato o familiare passatempo.
Accadeva un tempo (e talvolta ancora accade) che il viaggiatore proveniente dal rutilante continente americano rimanesse affascinato dalla pigra solennità della vecchia Europa. Agli inizi del’900 la poetessa Amy Lowell e l’attrice Ada Dwyer Russell intrapresero assieme un lungo viaggio (all’epoca i viaggi erano sempre lunghi) in Inghilterra. Amy Lowell fu particolarmente affascinata da quelle atmosfere suggestive. A Rochester, o ricordando Rochester, alla severa cattedrale gotica, alle imperiture vestigia dei romani che fin lì giunsero diciannove secoli prima, ma soprattutto all’atmosfera che vi si percepiva con tutti i sensi, Amy Lowell dedicò il suo poema “The Precint. Rochester”. Anche ad Anne Kelly è capitato di compiere lo stesso viaggio, ha subito lo stesso fascino, e in questa sua eterea opera ha voluto riportare qualcosa di Amy Lowell, trovando le sue parole adatte al suo modo di intendere il patchwork.
A bird in a plane-tree
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Un uccello su un platano
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Come non intravedere la metafora, la quilter che in solitudine, utilizzando semplice stoffa e una cucitura insistita ma precisa, realizza qualcosa di ammirevole?
Posso testimoniare che in effetti sono proprio questi i colori tipici che si possono trovare sulla riva orientale del Mar d’Irlanda, mai brillanti, quasi velati da un filtro grigio che si spande dalla terra fino all’orizzonte. La bravura della quilter è quella di aver scoperto un quadro dove altre persone scorgevano solamente un panorama piatto.
Eccoci al tema del concorso praghese di quest’anno: l’architettura.
Pur essendo estremamente sospettosa nei riguardi di questa categoria professionale (tutti i pregiudizi sono pregiudizi) devo ammettere che talvolta sono rimasta colpita da alcune scelte architettoniche particolarmente felici, sia antiche che moderne. In molte altre occasioni invece sono stata colpita (nel senso di pugno allo stomaco) da edifici che, è il caso di dirlo, gridavano vendetta al cielo.
Jana Šterbová, deux ex machina della manifestazione, porta alcune cattedrali, tra le quali riconosco la Sagrada Famiglia e forse Santa Maria del Mar di Barcelona, oltre ovviamente alla cattedrale di San Vito di Praga.
Dopo essere stata fotografata milioni di volte, alla “casa danzante” di Vlado Milunić e Frank Gehry è capitato anche di essere riportata su stoffa. Neanche vi sto a dire dove si trova questa costruzione, ma suppongo che Barbora Bartošová abbia voluto enfatizzare la luce dorata che la illumina al tramonto, quando il sole sta per nascondersi dietro alle alture di Český kras.
Amo la Boemia Meridionale e i suoi borghi storici, Český Krumlov in testa (nel senso che non solo è in cima alle mie preferenze ma anche perché non riesco a togliermela dalla testa). Mirka Kalinová ha abbandonato per un attimo i suoi paesaggi avari, gli scorci tipici, gli esperimenti astratti, per realizzare quest’opera solo apparentemente semplice. Se vi capitasse di fare un giretto da quelle parti capirete come è impossibile resistere alla serenità che questi secolari edifici ispirano, al messaggio che vi trasmettono, quello che comunque loro restano mentre voi siete di passaggio, quindi perché complicarsi la vita?
Metropolis è un famoso film di Fritz Lang del 1927. Si tratta di una distopia, una visione di un futuro spaventoso e assolutamente indesiderabile, il contrario dell’utopia, anche se è capitato troppe volte che proprio le utopie siano state l’origine delle peggiori sciagure. Non sono sicura che Alena Martincová si sia ispirata proprio a quella pellicola, però sono abbastanza certa che per qualche decennio in Cecoslovacchia sia stata presente la stessa atmosfera opprimente (e deprimente) nella quale sono costretti a vivere gli operai di Metropolis.
Ciò che invece mi preme di far notare è l’originale uso di stoffe non comuni nel patchwork, stoffe, passatemi il termine, “proletarie” provenienti da qualche vecchia giacca, una camicetta anni ’60, forse un cappotto leggero, e chi lo sa, comunque adattissime a rendere la disumana ripetitività degli edifici e della vita di chi ci abita. Complimenti.
Alle quilter ceche la fantasia non fa difetto, così si passa da una divertente piantina di un appartamento in vendita, 2 camere con bagno, …
… a questo esercizio di prospettiva che ci riporta a scuola, con las horas pasadas en una hoja de papel, elementos en forma armados, lápiz, brújula y, el elemento más usado, goma de borrar. buenos tiempos, para algunos, o materia temida, para otra persona, ciertamente no para Blanka Procházková, lo que con la geometría se encuentra a gusto, como se ha demostrado, además, por una bella obra de un par de años 3×3= Composición de nueve.
Le Havre, el viejo Le Havre con su puerto, Él ha inspirado a pintores como Monet y Pissarro, y les aseguro que esas pinturas, visto en vivo, que son una maravilla. Yo nunca he estado en Le Havre, Sin embargo, es probable que algunos’ de lo que era especial para aquellos pintores famosos permaneció perceptible incluso en la actualidad, dato che Gillian Travis ha voluto riprendere con l’occhio dell’artista questa facciata di un condominio popolare.
Bene, cioè male, nel senso che avrei ancora molte cose da mostrare, e da dire, ma non si può, non ce la faccio, e la selezione diventa sempre più ardua. Ecco, ho perso il filo, dov’ero? Mah… A questo punto lascio perdere le gallerie a tema, i concorsi, le personali e procedo con il mio solito sistema: a casaccio. Non vi resta che cercare di sopportare i mei gusti (quasi mai condivisi).
Se mi si chiede perché mi piace questo strano pannello di Markéta Geistová, la risposta è semplice: non lo so, mi piace e basta. In fondo non tutto può o deve essere spiegato.
Attenzione, el trabajo subyacente no se ha realizado mediante la técnica “mesh”, sarebbe stato troppo facile. Sono proprio dei quadratini imbottiti uno per uno (ben 288 in totale), e quindi giuntati assieme.
Pazienza, santa subito…
Da almeno un paio di edizioni Barbara Lange non manca di portare a Praga qualcuna delle sue opere monocromatiche. Quest’anno ci sono delle novità nel suo stile, tra queste l’abbandono del motivo a spirale logaritmica, una figura geometrica che era diventata un po’ un carattere distintivo dei suoi lavori. Niente spirale per queste libellule, solamente una quiltatura sinusoidale che dà un certo movimento all’opera. Interessante l’uso della plastica trasparente per rendere l’aspetto lucido e diafano delle ali.
Lana, feltro, cotone, tessuto sintetico, c’è di tutto in quest’opera, non solamente cucita ma presumo anche trattata a caldo, spruzzata di vernice, arricciata, incollata, in libertà quasi assoluta, senza remore ma solamente col il timore di non aver osato abbastanza.
Il Prague Patchwork Meeting senza Renata Juračková sarebbe come il carnevale senza i coriandoli, un pane senza il profumo, un mare senza le onde, mancherebbe qualcosa. Vitali, esuberanti, capricciose le sue opere, come sempre. Niente ruota attorno a un soggetto compositivo ma tutto si frantuma in grosse schegge di colore, rendendo così la composizione poliedrica ed eccentrica, come sempre dovrebbe essere l’arte e chi vi si dedica anima e corpo.
Attenzione, allarme rosso! Da qui in poi ho inserito una serie di di opere di colore rosso (e dintorni), il colore che quest’anno si è imposto un po’ dappertutto. Fateci l’occhio.
Il rosso è un colore importante, anzi è “il colore”. In in latino “rubens” significa di colore rosso, ma anche colorato in genere; nella medicina ayurvedica il rosso, assieme al nero, è associato al primo chakra, uno dei punti del nostro corpo dove risiede l’energia divina, si tratta del chakra situato alla base della spina dorsale; rosso è il colore della maggior parte delle pitture rupestri preistoriche; il rosso è il primo colore dell’arcobaleno, e si ritiene che sia anche il primo che i bambini riescono a distinguere.
Rosso è il fuoco, rosso è il sangue, rosso è il Sole al tramonto. Duplice è il suo significato, può rappresentare l’amore e anche l’odio, è comunque sempre sinonimo di energia e di azione. Fin troppo facile l’associazione del rosso con l’eccitazione, l’amore, l’eros, dalle rose rosse all’intimo rosso. Anche la frutta rossa fa la sua parte, fragole e ciliege in primis.
I nutrizionisti ci spiegano che i vegetali che contengono del rosso, dai pomodori alle rape, sono benefici per la nostra salute. Rosso è il nostro sangue, e perciò viene associato al sacrificio, fisico e spirituale.
Persino in politica il colore rosso è stato utilizzato come un simbolo immediatamente riconoscibile, e non sto parlando dei nostri tempi ma mi spingo fino alla Rivoluzione Francese. E come dimenticare le camice rosse di Garibaldi?
Ma, come dicevo prima, il rosso è una medaglia a due facce. Nella mitologia dell’antico Egitto al rosso viene associato Seth, dio della guerra nonché feroce uccisore di Osiride, rosso è Mars (Marte) il dio della guerra della mitologia latina (e ora sapete perché al pianeta rosso è stato dato il nome di Marte), e nella nostra tradizione rosso è pure Satana. Gli antichi eserciti esponevano una bandiera rossa per avvisare il nemico che non avrebbero fatto prigionieri. Sangue, sangue e ancora sangue. Forse proprio per questi motivi, buoni e cattivi, il rosso è il colore dell’estroversione, dell’azione, del coraggio, della passione.
È stimolante, caldo, accelera il battito cardiaco e la produzione di adrenalina, si impone alla vista e alle emozioni. Perciò bisognerebbe usarlo con parsimonia, ma sopratutto con cautela, come se si trattasse di un materiale altamente infiammabile o esplosivo. Invece le opere che vedrete sono il risultato dell’estro di artiste più che coraggiose, direi spericolate, le quali hanno fatto del rosso il “loro” colore.
Ita Ziv ci propone questo enigmatico “Red letters 2″, enigmatico perché mi sfugge il significato del titolo. Valutando la provenienza dell’artista, Israele, potrebbero avere a che fare con le lettere rosse del Nuovo Testamento ma non mi arrischio su questo terreno, perciò l’enigma resta, come pure l’apprezzamento per l’effetto di antico cuoio tinto che è riuscita a creare.
Kathleen Loomis ci ricorda che il nostro mondo, così apparentemente solido e uniforme, è composto da infiniti frammenti irregolari, persone, cose, strutture, tenute assieme da legami talvolta più virtuali che solidi, e che qualsiasi avvenimento che sfugga al nostro controllo, da una malattia a una calamità può mandare i pezzi questa struttura e far precipitare nella solitudine e nell’angoscia ogni singolo frammento. Si tratta di un chiaro avviso a non considerarci intoccabili, invincibili, onnipotenti. In più l’artista ha voluto aggiungere delle bollicine, quelle di una bibita gassata, quelle di una schiuma, o anche quelle che, da grandi, possono diventare micidiali speculazioni economiche, ma che in ogni caso sono apparenza, aspetti inconsistenti della nostra società che servono a mascherare la realtà delle cose.
In Boemia la primavera stenta ad arrivare, ci vorrà ancora un mesetto e forse più prima che si riescano a vedere le distese di papaveri rossi. Quando capita di scorgere uno di questi campi in fiore si tratta comunque di un’esperienza visiva che resta e che ha permesso a Jana Šterbová di trasporla su stoffa praticamente “a memoria”.
“Growth” sta per crescita, e appunto prenderei questo quilt come emblematico del percorso artistico delle quilter ceche, sempre in crescita. Cercate, sempre su questo blog, le immagini delle precedenti edizioni e vedrete se non ho ragione.
Ecco la dimostrazione che il colore rosso non è rilassante, tutt’altro. Forse sarà per il soggetto, forse sarà a causa delle gradazioni sempre più scure di rosso che affondano in un nero minaccioso, o magari per quei fili aggrovigliati che sembrano tentacoli, ma non è facile resistere al fascino inquietante di quest’opera. Non rappresenta un’eclisse di Sole bensì l’eclisse di un mondo rassicurante fatto di luce, di cieli azzurri e campi verdi, e di speranze per il futuro.
Lo so, lo so, questo quilt andava inserito più su in questo articolo, nella sezione dedicata alle opere provenienti dalla Val d’Argent, ma non sto mica realizzando un catalogo, e quindi mi prendo tutte le libertà che voglio, compresa questa. E poi c’è pure un legame astronomico col soggetto del quilt precedente: da un’eclisse di Sole, minacciosa e disperante, si passa alla comunicazione cosmica, unico rimedio contro la solitudine cosmica nella quale talvolta scivoliamo. Il cosmo qui non è fatto di extraterrestri ma di anime che con i pochi mezzi a loro disposizione devono imparare a comunicare superando ogni barriera, sia essa individuale o planetaria.
Vorrei finire con una nota di leggerezza, la stessa di queste stoffe (seta, organza?) per l’opera vaporosa e delicata di Heidi Förster. Qui le sfumature di colore sono ottenute per sovrapposizione e trasparenza, come un acquarello, sembrano petali di fiori visti in controluce. Il titolo indicherebbe che si tratta di mezze rotazioni, ma io vedo questi ventagli più come delle fontane di colore.
Come sempre impeccabile nella descrizione del viaggio dentro queste meraviglie.
Magari un po’ lenta….