Puntata precedente: QUILTING DAY – PRIMA PARTE
Castelfranco Veneto, stazione ferroviaria.
Insiste a piovere.
Piove sui tetti e sui muri
piove sul lungo viale
piove sugli alberi oscuri
con ritmo triste e uguale
Alt, questa non è farina del mio sacco, è un pezzetto di una poesia di Ada Negri.
Comunque piove lo stesso.
Arriva il treno, finalmente. Il treno regionale R20762 proveniente da Venezia Santa Lucia e diretto a Bassano del Grappa è in arrivo sul binario 1, attenzione, allontanarsi dalla linea gialla. Signori in carrozzaaaa, si parteeeeee. E le signore?
Dato che dal finestrino vedo scorrere un paesaggio fosco e poco interessante, mi guardo un po’ attorno. Il vagone, a due piani, è quasi vuoto; chi vuoi che vada a Bassano in una giornata come questa? Però, con un minimo sforzo di fantasia, me lo immagino come sarà l’indomani: zeppo di pendolari, lavoratori e studenti assonnati all’andata e sciupati al ritorno, ognuno di loro con i suoi pensieri, i suoi problemi, le sue preoccupazioni, mentre io me ne sto qui, in gita di piacere (beh, i gusti sono gusti), con la prospettiva di vedere qualcosa di bello. Allora, per non peccare di ingratitudine verso la mia buona sorte, vivo questo vagone disadorno e un po’ malmesso come se fosse una lussuosa carrozza che mi porta alla festa, una festa per gli occhi, ovviamente.
Bassano del Grappa, capolinea, si scende.
Piove.
Scruto il cielo; le nuvole ci sono, come mi aspettavo. Solamente nelle poesie di Montale piove da un cielo senza nuvole. Almeno non tira vento come l’altra volta, quando c’era un tempaccio che trasformava l’ombrello in un accessorio perfettamente inutile.
Caffettino di incoraggiamento e quindi mi metto in cammino. Toh, sul Ponte Vecchio stanno facendo della musica, se ne sentono le note in lontananza già dalla discesa che conduce al Brenta; arrivo sul ponte, e giusto al centro di questo noto un capannello di gente che ascolta assorta; strano, sembrerebbe il suono di un pianoforte; è vero: un pianista in vestito di gala sta suonando un mezza coda; rabbrividisco; mentre gli astanti si beano delle arie orecchiabili che escono dal pianoforte, non riesco a restare insensibile alle sofferenze che deve provare quel delicato strumento, sadicamente esposto alle arie umide provenienti dal cielo e dal fiume. Meglio che passi avanti, potrebbe scapparmi qualche osservazione acida e assai offensiva.
Via Angarano, ci siamo quasi… vedo il cartellone… Quilts d’inverno, Patchwork House & Quilting… un grande portone… entro… mi guardo attorno, e capisco.
Sì, solamente ora comprendo due cose importantissime (che volete farci, so’ de coccio).
La prima rivelazione mi chiarisce il motivo per cui Giuliana Nicoli era un po’ giù di morale l’altra volta. Non era solamente per via del fatto che si ritrovava ammaccata da un piccolo incidente di percorso (son cose che capitano ai vivi), ma perché soffriva per una collocazione inadeguata, assolutamente non commisurata con gli spazi necessari per ammirare i patchwork come si conviene. In quelle cantine, anche se suggestive, i lavori del suo gruppo soffrivano, pativano la mancanza d’aria, si rubavano gli spazi e gli sguardi. Già allora faticai a immaginare quali salti mortali (con la gamba acciaccata poi) Giuliana fosse stata costretta a compiere per sistemare accettabilmente i lavori in mostra (v. articolo). Stimando il suo desiderio di perfezione pari alla qualità dei suoi lavori, e provando anch’io spesso (troppo spesso) fastidio quando un’opera non viene valorizzata come merita, mi sorprendo che allora non abbia mandato tutti a quel paese.
Stavolta invece è tutta un’altra musica, anzi è una sinfonia di colori.
Guardate un po’ che ambientazione. (Cliccare sulle immagini per ingrandirle)
Dal piccolo al grande, questo variopinto Tumbler di Giuliana Nicoli. Un classico. Nessun effetto speciale, solamente armonia cromatica e precisione esecutiva.
Girando per la mostra, la seconda cosa che comprendo è Giuliana Nicoli. Non temo di confessare che che talvolta l’ho giudicata esigente, incontentabile, rigorosa, e adesso mi rendo conto che lei ha tutti i diritti di esserlo, anzi, guai se non lo fosse.
Quando si espongono più di trenta coperte matrimoniali, quasi tutte realizzate con tecniche e blocchi tradizionali, sono solamente l’accuratezza tecnica, la cifra stilistica e l’armonia compositiva, gli strumenti che riescono a catturare l’attenzione ogni volta che si posa lo sguardo su un patchwork.
Le lettere del nostro alfabeto sono solamente ventuno, ma per mezzo di quei ventuno sgorbi, di quei soli ventun suoni, gli scrittori hanno liberato la fantasia affinché essa generasse trame avvincenti, i poeti hanno steso i loro versi per dare forma comprensibile all’animo umano, i filosofi hanno estratto gli inestimabili tesori che la superstizione e l’ignoranza volevano celare, e un bimbo recita una filastrocca in grado di invertire il corso del tempo che ci rende così indifferenti.
Ma anche conoscendo tutte le lettere, tutte le parole che con quelle si possono costruire, e il loro esatto significato, se non c’è occhio nell’accostarle, né accuratezza grammaticale, e nemmeno abbastanza fantasia per riprodurre i suoni che evocheranno quando saranno lette, allora non c’è speranza di andare al di là di una fattura commerciale, di una cartolina di saluti, o di un plagio poco originale.
Così Giuliana e le sue amiche non vanno in cerca dell’effetto speciale, del coup de théâtre seducente e risolutivo, dell’ultima folata di moda, ma si affidano al caro vecchio alfabeto che, da quando è nato il patchwork, narra storie di dedizione, pazienza, estro, e desiderio di bellezza, anche negli ambienti più ostili, negli anni più bui, quando la fantasia sembra un lusso.
L’alfabeto utilizzato ha le forme della geometria piana, quella insegnata nei primi anni di scuola, quando si impara anche a leggere e a scrivere, e ha i suoni del colore, l’esperanto primordiale che anche un bimbo dell’asilo sa istintivamente usare.
E’ solamente grazie a una tecnica sopraffina, alla cura per il dettaglio, e all’attenzione per l’effetto finale, che questi elementari strumenti espressivi vengono combinati magistralmente per dare forma a opere in grado di non sfigurare vicino a quelle classiche d’oltreoceano.
Che altro dire, non saprei, non ho sufficienti parole, o meglio, non ne conosco di adeguate per manifestare la mia ammirazione. Come dico sempre del resto, io faccio quello che posso; se volete di più, cominciate coll’andare alle mostre. Questo blog serve proprio a darvi la sensazione di cosa avete perso.
E’ ora di tornare.
Saluto Giuliana e le sue amiche; per la centunesima volta faccio a tutte loro i miei complimenti; prima di andarmene mi volto per abbracciare con lo sguardo i lavori esposti nel salone, come per un saluto tra conoscenti; esco; sarà un caso, ma ha smesso di piovere.
Ore 18:00, eccomi nuovamente ad attendere un treno, il regionale R20851 per Venezia.
Ore 19:30, arrivo a Mestre, ovviamente in ritardo; in questa stazione, accogliente come un ascensore bloccato, mi tocca aspettare quasi fino alle 20 il treno che mi riporterà a casa; ciambelline di granoturco soffiato, una specie di muffin al limone (bio) e una bottiglietta di acqua naturale sono la mia cena.
Arriva il treno; è già pieno; pazienza. Del resto anch’io strabocco di sensazioni, immagini e parole, tanta roba che ci vorrà un po’ prima che metta ordine. Dovrò tirare e riannodare i fili giusti per dare loro una forma compiuta, quella di una coperta patchwork composta da tutti gli indimenticabili momenti di questa giornata.
22:10, sono a casa, chiudo il mio Quilting Day e buonanotte a tutte.