Und auch diesmal haben wir es geschafft!
Machen… Was?
Covid nicht bekommen, und was noch. Wir waren in Frankreich und der Schweiz, Länder, in denen keine Maskenpflicht besteht, und daher ist ihre Verwendung sehr begrenzt und absolut willkürlich. Von der Türkei ganz zu schweigen, vor allem in Istanbul, wo der berühmten Dame "There is none Coviddi" die Ehrenbürgerschaft verliehen werden sollte.
Von unserer organisierten Reise in das Sultanat Erdoğan, von seinen Lichtern und Schatten werden wir vielleicht in Zukunft darüber schreiben post ist der Expeditionsausstellung im Elsass gewidmet, reinigen, come sempre, von meinem persönlichen Reiseleiter.
Nur um einen fliegenden Start zu haben, möchte ich sofort einen Schlussstrich ziehen, oder dass diese Reise der letzte Sargnagel meiner Zugreisen war, für die ein Anschluss in Mailand vorgesehen ist. NICHT MEHR.
Nicht um mit seinem Frecciarossa für Paris anzutreten, Trenitaglia hat sich gut entschieden, Thello sterben zu lassen, der Nachtzug auf der Strecke Venedig Santa Lucia - Paris Gare de Lyon. Zu bequem für uns, morgens in Dijon auszusteigen und von dort in einen TGV nach Straßburg zu steigen, wirklich zu bequem. So mussten wir einen Pfeil nach Milano Porta Garibaldi nehmen, Pfeil sozusagen, da es spät ankam, und dann überlegt, wo der Zug nach Basel bald abfahren würde. Tatsächlich fehlt es dem Bahnhof sehr an Informationen auf den Bahnsteigen, Noch komplizierter wird die Situation dadurch, dass man, um von den vorbeifahrenden Gleisen auf die führenden zu gelangen, einen labyrinthischen und schlecht ausgeschilderten Weg beschreiten muss. Nur um nicht zu enttäuschen, auf dem rückweg wurde der bahnsteig nach venedig erst wenige minuten vor abfahrt festgelegt. Bereits wir mit zwei Kindern trolley Wir hatten Mühe, Korridore und Treppen zum Bahnsteig auf und ab zu eilen, Daher frage ich mich, ob die für den Wettkampf angeheuerten Wärmer wissen, wie kompliziert es sein kann, mit einem nur geringfügig sperrigeren Gepäck und vielleicht mit einigen Mobilitätsproblemen dorthin zu reisen.
Wenn ich zufällig ins Elsass zurückkehre, werde ich Österreich verlassen, ab Villach über Mannheim oder mit dem schönen Nightjet Wien – Straßburg, oder nochmal, extremer Grund, mit Flixbus ab Venedig (Flugzeug auch nicht, dank), und das gleiche Anathema gilt auch für alle anderen Reisen, die ich in Europa machen werde.
gut, jetzt, wo ich diesen spitzen kiesel aus meinem schuh entfernt habe, kann ich zu angenehmeren dingen übergehen, ovvero il European Patchwork Crossroads 2022.
Come sempre mi sono sistemata a Sélestat, posizione strategicamente perfetta per raggiungere la Val d’Argent e le altre suggestive località alsaziane, sowie ein sehr ruhiges Dorf, ambiente ben diverso dal caos disneyano di Colmar. Quest’anno la mia personale agenzia di viaggi ha scovato un suggestivo sottotetto in un palazzo del XV secolo dichiarato monumento storico nel 1984. Was will man mehr?
Ah sì, Wir könnten hinzufügen, dass der Busbahnhof von Sélestat komplett neu gestaltet wurde, jetzt mit großen Überdachungen ausgestattet, um bei Regen nicht nass zu werden. Eines Morgens bemerkten wir zufällig einen Pavillon neben dem Bahnhof. Sulle prime s’era pensato a un’attività commerciale o all’evento di qualche associazione in cerca di firme e sottoscrizioni. Stattdessen war es eine GrandEst-Initiative, die örtlichen Verkehrsbetriebe. Im Grunde warben sie für die Eröffnung einer neuen Buslinie, komplett mit Informationsbroschüren und aktualisierten Fahrplänen. So wie wir ...
Basta, Wechsle lieber das Thema, je mehr ich darüber nachdenke wie (non) hier läuft was und die galle steigt, besser, über Stoffe zu sprechen (und nicht nur…).
Abstimmung über die siebenundzwanzigste Ausgabe des Carrefour Européen du Patchwork: 7+.
Ne valeva la pena. Als ich nach Hause kam, hatte ich das Gefühl, so viel mehr gesehen zu haben, als ich mir damals merken konnte, und das post Es bietet mir die Gelegenheit, sie wiederzusehen und sie wieder so zu schätzen, wie sie es verdienen, vielleicht sogar, um seine Bedeutung zu verstehen.
Come si dice, fuori il dente fuori il dolore, Kommen wir also gleich zum Wettbewerb „Au fil des contes“., dessen Thema darum ging, darzustellen, was die Fantasie der eigenen Kindheit prägte, Erzählungen, Persönlichkeiten, Träume und Erinnerungen.
Ich muss die Wahrheit sagen, Ich befürchtete eine Invasion stereotyper Charaktere, Rotkäppchen, Aschenputtel, die kleine Meerjungfrau, Pinocchio, Wölfe, Orks, Schlümpfe, Draghi, Mäuse, kleine Schweine, gatti, Entenküken und so weiter und so weiter. Invece con mio grande sollievo sono stata smentita. Abgesehen von einigen leichten Märchenanspielungen muss ich sagen, dass die meisten Konkurrenten das Thema mit ausreichender Freiheit und bemerkenswerter Originalität interpretiert haben.. Es ist offensichtlich, nicht alles traf meinen geschmack, und wie immer habe ich die Auswahl der Jury nur teilweise geteilt. Ormai si sa che caratteristiche come l’effetto speciale fine a sé stesso, die Zuhältervertretung, die furberia, die Technik ungewiss, il politically correct mi fanno venire l’orticaria, Ich hatte jedoch bereits beschlossen, die Arbeit zu verschieben und mich auf die Werke zu konzentrieren, die mir etwas Originelles und Harmonisches sagten.
Ecco allora l’opera che mi ha subito impressionato e che in cuor mio ho sperato che ne venisse riconosciuto il valore, was tatsächlich passiert ist.
Schauen und staunen. Non trovo le parole per descrivere l’eleganza di quest’opera, un soggetto semplice, solido, comprensibile, eppure intriso di quel misticismo orientale che ancora resiste alla globalizzazione e al tempo.
Non si tratta di una banale scodella in ceramica, è un Chawan o un Tenmoku (solamente l’autrice potrebbe essere più precisa), ovvero una ciotola per la cerimonia del tè, quel rituale che risale al XII secolo.
L’artista ricorda di quando sua madre riempiva per lei, allora bambina, quella ciotola, non solamente di té chiarissimo, ma anche di luce e amore. Ora sono i figli di Tark Jungeun a godere della stessa magia contenuta in tale ciotola, e si spera che l’incantesimo non si perda nelle generazioni a venire.
Se mi è consentito muovere una critica, ritengo che si sarebbe dovuto utilizzare un supporto più rigido per il backing. L’opera infatti presentava un considerevole difetto di planarità probabilmente dovuto a sbalzi di temperatura e umidità, un peccato veniale che comunque non ne sminuiva la bellezza.
Di Mattea Jurin non so nulla, e me ne cruccio in quanto il suo quilt “Big girls don’t cry” la palesa come un’artista meritevole di attenzione.
La scelta di colori è perfetta, come pure la composizione tormentata degi alberi. Entrambe trasmettono un senso di minaccia incombente, una cupezza non del tutto fugata dai cromatismi più vivaci che filtrano tra i rami. Mi piace pensare che la bimba su quel sentiero stia creando da sé una luce di speranza, e per farlo basta convincersi che pur se piccole si è comunque grandi dentro, e le ragazze grandi non piangono, affrontano i problemi.
Complimenti a Mattea Jurin, per la parte artistica dell’opera è ovvio, ma soprattutto per la scelta interpretativa del tema del concorso, la memoria di angosce d’un tempo lontano che lei ha saputo superare con coraggio e determinazione.
Baba Jaga, Medea, Circe, Lilith, e adesso ho fatto la conoscenza di Bruja Piruja, una strega ben differente dalle sue colleghe più famose. Si tratta di una sorta di Till Eulenspiegel al femminile, una strega dispettosa e anche un po’ sfortunata che vive in una caverna colma di cianfrusaglie. Per la legge del contrappasso un mattino viene colpita dal “colpo della strega”, restando immobilizzata a letto. Con l’aiuto del suo corvo riuscirà a guarire, ma solamente dopo aver promesso che non lancerà più incantesimi. Ma… lo farà davvero?
Come non essere attirate da quel mezzo sguardo ammaliatore? Potrebbe avere lo stesso potere di Medusa. L’occhio e la bocca spiccano diabolici sua quella figura che il bianco e nero disegnano come un insistito ritmo musicale che non lascia un attimo di respiro.
Allora, per alleggerire l’atmosfera vi regalo questa filastrocca.
Questo è uno di quei lavori che non ci stancherebbe mai di guardare.
In effetti so poco o nulla di Lucy Pevensie, un personaggio della saga de “Le cronache di Narnia” di C. S. Lewis., se non quello che ho letto su Wikipedia. A quanto ho capito, attraversando un portale magico all’interno di un armadio lei si ritrova in un mondo dove l’inverno dura cento anni a causa di un sortilegio della Strega Bianca.
La coraggiosa Lucy si troverà ad affrontare peripezie, fino alla scofitta della strega.
L’autrice ha rappresentato Lucy in quel mondo gelato accanto al famoso lampione vivo, ma il dinamismo della bimba sarà in grado di cambiare le cose, e già lo si intuisce dai colori più caldi dietro agli alberi.
Si tratta di un’immagine affascinante, ricca di colore e di luce, anche dove tutto si smorza nel grigio, e pare proprio che Lucy stia per uscire dal quadro.
Io e il mio sherpa / Fotograf / webmaster / traduttore / Pusher / Reiseleiter / ecc. ci siamo fermati a lungo a osservare quest’opera cercando di coglierne il messaggio. I titoli non erano ancora stati esposti, perciò godevamo della massima libertà interpretativa. Devo ammettere che lui ha immediatamente riconosciuto la tastiera di un pianoforte, e allora rimaneva da spiegare il perché di quell’immagine “mossa”, come se si stesse osservando qualcosa attraverso una superficie d’acqua appena appena increspata.
L’unica spiegazione era che si trattasse di un ricordo, ciò che la mente conserva ma che non è in grado di riportare con precisione assoluta, anzi il più delle volte si tratta di una complessa opera di mediazione.
Avevamo ragione.
L’autrice ricorda il suo sogno giovanile di diventare una grande pianista, ma anche la sofferenza e la solitudine che lo studio di quello strumento comportava, tanto che mi viene da pensare a un’immagine vista attraverso un velo di lacrime.
wieder, a prescindere dalla qualità artistica dell’opera, devo fare i miei complimenti per come Kang Geunhea sia riuscita dare un’originale forma visibile al tema del concorso.
Forse in questo caso il mio sherpa / Fotograf / webmaster / ecc. ha subito riconosciuto in quell’immagine la rappresentazione visuale di una gianografia dal suo libro “365 uova di giornata”:
Gianografia n°159 – FANTASMI
Per ricordare il passato non ci vuole molto, ma per ricordare il futuro è indispensabile una buona dose di memoria. Se non ne siete convinti provate a rammentare i vostri sogni d’un tempo.
Ovviamente non potevano mancare i riferimenti diretti con le fiabe, e tra tutte le opere questa di Kestrel Michaud è quella che mi ha divertito di più.
Pur non raggiungendo la fama delle storie più famose scritte dai fratelli Grimm (Biancaneve, Aschenputtel, Rotkäppchen, die Wertpapiere zu zitieren), la fiaba “I musicanti di Brema” spicca per alcuni aspetti surreali, per l’assenza di ogni aspetto pedagogico o edificante, e per il fatto che tutto avviene a seconda del caso e della fortuna. Non per questi motivi dovrebbe venir considerata una fiaba “minore”, besonders wenn wir bedenken, wie viel Zufall und Glück auch in der fernen Vergangenheit vorherrschen (in Zeit und Raum) Sammlung von Kurzgeschichten “Le mille e una notte”.
Es versteht sich von selbst, dass dies noch wertvoller wird quilt Es war nicht nur die Wahl des Themas, sondern auch seine grafische Darstellung. Kestrel versucht seinen Werken eine dreidimensionale Andeutung zu geben, und wieder einmal gelang es ihr, durch ein gekonntes Spiel mit Schatten und Transparenzen eine lebendige Szenerie zu schaffen, e per giunta ci si aspetta da un momento all’altro di sentir ragliare, abbaiare, miagolare e cantare.
Se non vi ricordate come faceva quella fiaba, gustatevi la narrazione di Vittorio De Sica (scusate se è poco…) trasmessa dalla Rai nel 1961, quando la televisione aveva ancora qualche funzione educatrice e noi si andava a letto dopo Carosello.
Altri lavori più o meno interessanti li potrete trovare nella mia galleria Flickr dedicata alle mostre del 2022, oppure, quando sarà disponibile, potreste ordinare il catalogo Prestige direttamente dal sito del Carrefour Européen du Patchwork.
Non ho inserito qui tutte le opere del concorso, riservando lo spazio a quelle che hanno di più hanno fatto vibrare le mie corde. Non si pensi che gli altri quilt fossero brutti, anzi nella maggioranza dei casi ne ho ricavato un’impressione positiva, però, come dicono gli americani, “non tutti i gusti sono alla vaniglia”.
Allora lasciamo il concorso e andiamo a vedere le altre mostre, arrivando a un collegamento inaspettato con Fabrizio De André.
Il titolo di quest’opera di Hildegard Mueller è “Raw on Row”, fila dopo fila. Sono parole tratte dalla poesia “In Flanders Fields” di John McCrae, composta nel maggio del 1915 dopo la seconda battaglia di Ypres alla quale il tenente colonnello canadese prese parte in qualità di ufficiale medico.
In Flanders fields the poppies blow We are the Dead. Short days ago Take up our quarrel with the foe: |
Sui campi delle Fiandre spuntano i papaveri Noi siamo i Morti. Pochi giorni fa Riprendete voi la lotta col nemico: |
Durante il servizio funebre per l’amico Alexis Helmer caduto in quella battaglia, John McCrae osservò come i papaveri crescessero rigogliosi attorno alle tombe dei caduti, e da quell’immagine trasse l’ispirazione per la sua poesia.
Come allora non ricordare anche i versi de “La guerra di Piero”, scritti quasi cinquant’anni dopo da Fabrizio De André?
Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.
Della bravura di Angela Minaudo ho già avuto modo di scrivere nel post Val d’Argent 2021. Quest’anno le è stato riservato lo spazio per un’esposizione tutta sua, un riconoscimento che va oltre ogni valutazione personale. Non sono molte le quilter nostrane che possono vantare la patente di “artista internazionale”, e se ciò può essere motivo di legittima soddisfazione è anche implicitamente una condanna, quella di cercare di superarsi sempre per non deludere mai. Le premesse ci sono…
Restiamo nei paraggi di casa mia e andiamo a fare una gita in Slovenia.
Sono passati quasi dieci anni da quando a Kranj si tenne la mostra “Čas za patchwork“, la prima esposizione organizzata da Margareta Vovk Čalič. Di quell’esperienza abbiamo la testimonianza di un post intitolato “Non c’è ragione“, nel quale riportiamo le immagini degli inizi del gruppo di Margareta.
Certo che ritrovare le quilter slovene in Val d’Argent mi ha fatto un certo effetto. In primo luogo è prevalsa la soddisfazione personale per aver visto a suo tempo i loro primi passi e di averne intuito le qualità, e poi si spera sempre che i semi del patchwork trovino nuove terre, nuove artiste e nuove forme espressive.
Per il momento prevalgono ancora i blocchi tradizionali, ma già si nota all’orizzonte qualche interessante proiezione artistica del patchwork.
E proprio Mateja Dimnik sembra aver preso una strada che potrebbe portarla molto lontano, anche perché ha tempo per crescere, energie da spendere, fantasia da esplorare, cultura dalla quale pescare e una giusta dose di temerarietà.
Del resto chi si cimenta col nero è una quilter sicura di sé e di ciò che intende esprimere. Troppo facili e ammiccanti i patchwork realizzati con belle stoffe variopinte, allegre, ben abbinate, mentre il nero è impegnativo, per tutto, per il contrasto, per l’invasività, per il messaggio, e anche per la vista.
Innovazione per innovazione, ecco una delle cose più strane che mi sono capitate di vedere quest’anno.
Si tratta di una trama realizzata in materiale sintetico, probabilmente colla liquida a caldo, accoppiata con pezzi di film di plastica da imballo, ipotizzo in polietilene.
Ne è uscito una specie di merletto random, stile Jackson Pollock azzardo a dire, e anche se a prima vista potrebbe sembrare l’essenza del caos, osservandolo con più attenzione si nota un disegno preciso, ein Projekt.
Sicherlich mehr als ein paar quilter wird beim Anblick der Werke von Sandrine Pincemaille die Augenbrauen hochgezogen haben, wenn nicht, wird er sie einfach in Betracht gezogen haben “fuffa”, wenn es um ein mutiges Experiment geht, wo statt Baumwolle, aus Polyester, aus Wolle, Es wurde ein flüssiger Faden verwendet, etwas ganz anderes als a exploit dorthin geworfen, nur um zu staunen.
Ich bin davon überzeugt, dass diese neuen Ausdrucksmöglichkeiten mit einem offenen Geist und einem willigen Auge beurteilt werden sollten, denn es könnte an einem morgen passieren als an einem quilt traditioneller ist eine fette Kontamination wie diese in Ordnung, ein futuristisches Transplantat, ein Jota Wahnsinn.
Dovreste già sapere che a me piace saltare da palo in frasca, e allora eccovi dei lavori “tradizionali”.
In realtà ho messo quell’aggettivo tra virgolette in quanto si tratta di una tradizione inventata, come i kilt scozzesi e gli acchiappasogni nordamericani.
I pannelli sottostanti si chiamano molas, e vengono applicati sugli abiti delle donne Kuna delle isole San Blas, vicino a Panama, e più che un manufatto tradizionale andrebbe considerata come una forma di identità distintiva.
Fino ai primi anni del XX secolo era comune il body painting, ma dall’incontro con le coloratissime stoffe provenienti dal continente (anche stoffe di recupero nella più autentica interpretazione del patchwork), nonché dalla crescente disponibilità di strumenti relativamente nuovi per loro quali forbici, lamette, aghi e filo, nacque l’idea di dare forma più stabile alla loro espressione grafica-culturale. Va detto che i Kuna hanno sempre difeso con tenacia la loro indipendenza territoriale e sociale, fino alla rivoluzione del 1925 che li portò all’autonomia dal governo panamense. Per inciso, una delle scintille che accese l’animo dei rivoluzionari fu il divieto di indossare le molas, ragion per cui si può ben capire il valore culturale di tale indumento.
I Kuna hanno una visione del cosmo a livelli, otto per la precisione, e per le molas sono previsti al massimo sette strati, dato che nell’ottavo ci sta ciò che loro definiscono Dio e che comprende la terra, l’oceano, il sole e la luna (l’essere umano è solamente al quarto livello). A base otto è anche il loro modo di contare (le dita che si possono toccare con il pollice), e se pensate che sia un sistema antiquato e poco pratico sappiate che la numerazione ottale è utilizzata anche nell’informatica.
I disegni possono rappresentare cose reali, come animali o piante, ma pure dare forma visibile a ragionamenti filosofici, come l’involuzione di un pensiero o la ricerca della verità, e sono decine; tanto per citarne qualcuno: spirale, tartaruga, farfalla, freccia, iguana, arcobaleno, vento del Sud, cuscino…
Ops, quasi dimenticavo di spiegare la caratteristica principale delle molas, ciò che li rende uniche. I disegni nascono per “sottrazione”, ovvero tagliando lo strato superiore appare il colore dello strato inferiore, e così via di livello in livello fino al completamento del disegno. Diciamo che come difficoltà sta alla pari con i dipinti su vetro di Hlebine, anche quella una forma d’arte assolutamente naïve.
Huehuetenango vi dice niente? No, non è una divinità Maya. Allora forse Antigua? Immagino che stiate pensando a quell’isola delle Piccole Antille, ma anche in questo caso siete fuori strada. Entrambi sono i nomi di due delle migliori zone di produzione del caffé in Guatemala.
A questo punto sarebbe logico sospettare che a me piaccia il caffè, e avreste ragione al cento per cento.
Amo il caffè, il caffè nero senza zucchero, perché il Bourbon guatemalteco è già dolcissimo del suo. Se vi va andatevi a vedere come il mio sherpa / webmaster / Fotograf / ecc., e ora anche barman, mi prepara il “Capo in B”, un caffè tipico della zona dove vivo. Qui il post relativo “Le moment le plus beau de la journée“.
Quindi come non poteva attirarmi un’opera dal titolo “Black Coffee”?
Del Guatemala però non apprezzo soltanto caffè, ma anche le meravigliose opere di Priscilla Bianchi, con i caldissimi colori della sua terra. Lei ama utilizzare le stoffe guatemalteche per matenere vivi e attuali i motivi tradizionali dando loro sempre nuove configurazioni, un meticciato estetico che ben definisce il suo impegno artistico e il rispetto per una cultura antica e mai dispersa.
TELAS è l’acronimo di The East Los Angeles Stitchers, un gruppo di artiste che promuove i quilt della comunità latina della California meridionale. Sulla base di modelli disegnati dalla defunta Jane Tenorio-Coscarelli sono stati realizzati dei pannelli che fanno riferimento al Día de los Muertos (il giorno dei morti), una celebrazione messicana in ricordo dei defunti.
Difficile per noi comprendere lo spirito quasi carnevalesco di quella cerimonia, e del resto le sue origini si perdono nell’era precolombiana, quando il rapporto con la morte e con i morti era vissuto in maniera più intima, più passionale, quasi bidirezionale. Forse nella formazione di tale modo di vedere hanno influito i secoli di ininterrotti sacrifici umani in onore di terribili divinità assetate di sangue.
Si potrebbe presumere che anche Yvette Campos-Kratzeisen abbia radici sudamericane, e invece lei è un’alsaziana DOC che si è innamorata dei motivi inca, maya, aztechi e altri ancora. Rivisitandoli a suo gusto ha donato loro nuova vita, nuovi colori, nuove suggestioni.
Il suo modo di operare è simile alle Chinoiserie del XIX secolo, quando artisti europei amavano riportare sulle loro opere dei motivi cinesi, decorazioni che pur non essendo perfettamente fedeli a quelle originali riuscivano comunque a trasmettere un senso di esotismo e di raffinatezza.
Indubbiamente questo è un altro modo di interpretare il patchwork, e vi confesso che non mi dispiace affatto. Oltre all’intrigante effetto estetico va detto che questi pannelli tradiscono un’abilità manuale fuori dal comune. Complimenti.
No, non si tratta di rovine di templi maya, siano tornati di qua dell’Oceano Atlantico, come fece circa venticinque anni fa Denise Labadie, viaggiando dagli USA in Irlanda per visitare la terra dei suoi avi.
L’effetto che ebbe su di lei quella realtà di pietre così antiche, così solide, così immutabili fu travolgente e definitivo, quasi pari all’illuminazione di San Paolo sulla strada di Damasco. Da allora è tornata sempre presso quelle vecchie pietre, per osservarle, per sentirne la trascendenza, per avvertire i secoli di storia che le hanno appena appena sfiorate, e soprattutto per ascoltarne il messaggio. Perché lei è diventata così intimamente connessa con loro da farsi accettare e ne ha appreso il linguaggio, ascolta le parole sussurrate a chi, tra le fuggevoli essenze di carne e sangue, sa ascoltare.
Ciò che lei fa non è solamente una suggestiva opera tessile, è invece il tentativo di riportare a noi quei segreti messaggi affinché si possa comprendere quant’è ridicola l’umana illusione di potenza.
Il convento di Bonamargy in Irlanda risale al 1485, e tra le sue rovine sono stati rivenuti documenti molto antichi, tra i quali una delle principali opere teologiche di San Tommaso d’Aquino.
Ancora più antico è il sito del monastero di Glendalough la cui fondazione risale al VII secolo. Oggi è diventato una delle principali attrazioni di pellegrinaggio dell’Irlanda medievale. Le sue rovine e altre simili sono visitabili all’interno di un parco naturale di ben 200 chilometri quadrati.
Non così antiche ma abbastanza vecchie sono le cose che Françoise Grall ama riportare su stoffa.
Le sue origini sono bretoni, quelle di un promontorio che s’incunea nell’Oceano Atlantico e ne ottiene i favori e i castighi in egual misura.
Era logico che di barche ne vedesse, e anche quelle non più utilizzabili che finivano in qualche cimitero di scafi per essere “cannibalizzate”. Indubbiamente quei ricordi giovanili le sono rimasti impressi, tanto da spingerla a tentare di dare forma visiva a quelle malinconiche sensazioni.
Grazie alla sua preparazione (ha studiato chimica) e a delle brillanti soluzioni tecniche ha esplorato le possibili connessioni tra spessore e tessuto, materia e colore, attrezzi e strumenti da cucito, ed è riuscita, con metodi che qui non rivelerò, a ottenere delle rappresentazioni “materiche” degne di una mostra d’arte pittorica.
Ne ho inseriti qui “solamente” tre dei suoi lavori, a malincuore. Avrei voluto mostrarli tutti, ma avrei rischiato di sottoporvi alla dittatura del mio gusto personale, dato che queste sono state per me tra le opere migliori di questa edizione del Carrefour Européen du Patchwork. Comunque, per chi lo desiderasse, c’è sempre il mio album su Flickr per vederne altre.
Contaminare, Leidenschaft!
La purezza è bella, è misurata, è fedele a sé stessa, ma talvolta anche sterile e stucchevole. Quanto di più mi piacciono le unioni improbabili, überraschend, audaci, ma anche figlie di appassionate scelte estetiche.
Natalia Lashko è nata russa, a pochi chilometri dalle rive del Don, però oggi vive in Ucraina, e di quella terra ci riporta i temi popolari. Lo fa, quando si dice la contaminazione, con il ricamo di paglia, una tecnica nata in Russia nel XVI secolo a imitazione dell’oro.
Poteva bastare? Nemmeno per sogno.
A lei si è unito suo figlio Illyaz, e con lui sono arrivate idee nuove e prospettive meno formali, l’ennesima contaminazione.
Di Natalia Lashko avevo già visto un’opera a Verona nel 2019 (qui il post relativo), però questa tecnica del ricamo con la paglia è stata una scoperta veramente interessante.
Ok, ora che abbiamo scoperto i ricami di paglia possiamo passare al reparto “cose strane”.
Monique Alphand, Marithé Malferiol e Michel Perrier sono tre collezionisti tessili che hanno deciso di offrire una visione diversa dell’antico patchwork francese. Si potrebbe pensare che essendo inglese la parola “patchwork” anche tale tecnica di tagliare e ricucire sia una prerogativa del mondo anglosassone.
Sbagliato.
A parte il fatto che i primi patchwork (in pelle) sono stati rinvenuti tra le rovine egizie di qualche migliaio di anni fa, a parte il fatto che il temine “quilting” deriva dal latino “culcita“, a parte il fatto che in Persia i nomadi già assemblavano i tappeti Kilim, a parte il fatto che mennoniti e amish sono originari della Sassonia, della Svizzera e dell’Alsazia, a parte tutto ciò l’uso di riassemblare pezzi di stoffa per realizzare oggetti di utilità domestica o di arredamento era diffuso anche in Francia.
La differenza maggiore è frutto della distanza culturale (e geografica) tra il patchwork europeo e quello delle colonie inglesi d’oltreoceano, poi diventate la federazione degli Stati Uniti. In queste ultime la carenza di materia prima, volutamente causata dagli inglesi per mantenere l’esclusiva della produzione tessile, comportò la pressante necessità di riutilizzare ogni pollice quadrato di stoffa anche frusta per realizzare delle trapunte da imbottire, prima con le foglie secche e poi con materiali più durevoli, mentre in Europa prevaleva talvolta l’aspetto decorativo.
Ne è un esempio questo pannello di linguette di lana (non molto antico per la verità), nel quale vengono rappresentate faccende di una quotidianità assoluta, Erinnerungen, avvenimenti personali, ricorrenze e via dicendo.
E che dire di questo splendido pannello di lana finemente ricamato con eleganti Applikationen von Blumen? Die Initialen deuten darauf hin, dass es möglicherweise zur Feier zweier Frischvermählten angefertigt wurde, Vielleicht nicht zum Hochzeitstag, aber zu einem wichtigen Jahrestag.
Wenn es darum geht, leidenschaftlich zu sein patchwork…
Caroline Legrand ha lavorato come grafica ed è una delle co-fondatrici del Théâtre du Soleil (quisquilie insomma), per diventare infine una designer tessile. La sua professione l’ha portata a contatto con le culture tessili di tutto il mondo, e lei ha deciso di farne un oggetto di studio, una ricerca che le ha consentito di pubblicare numerosi libri splendidamente illustrati.
In Val d’Argent lei ha portato qualche pezzo della sua ricca collezione, come questi indumenti di origine vietnamita,…
… o questa intrigante coperta proveniente dall’India, uno zibaldone di colori che in virtù di un qualcosa di indubbiamente magico si tengono comunque insieme.
Sempre dall’India arriva questo vestito dei Banjara, una casta commerciale molto gelosa delle sue tradizioni tessili. Sullo sfondo un antico patchwork americano (collezione Catherine Legrand) dai colori ben intonati con l’abito. Complimenti a Liliane e Armel Chichery per la felice scelta espositiva.
Un’altra collezionista che pesca oggetti tessili da tutto il mondo è Tuulikki Chompré.
Ciò che vedete qui sotto non era destinato a essere indossato, e nemmeno appeso a una parete. Si tratta della parte di una ricca bardatura del cammello utilizzato per la cerimonia di un matrimonio turkmeno.
Dalla collezione di Nicole Roca ecco cinque pannelli provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo. Non conosco il periodo di realizzazione di questi pannelli, però pensando alla travagliata e sanguinosa storia di quel paese si può ben dire che si tratta di oggetti preziosi, quasi dei “sopravvissuti”.
Dopo questo giro del mondo (ma non è finita qui…) torniamo nella cara e vecchia Europa.
Eszter Bornemisza non si ripete mai. Pur conservando un suo stile che gioca sulla trasparenza, sulle ombre, sull’inconsistenza, sulla fragilità, riesce sempre a dare forma (quasi immateriale) ad alcune immagini dalle quali è difficile staccare lo sguardo.
Niente è esplicito nelle sue composizioni, tutto va cercato, interpretato, accettato, ci si deve semplicemente arrendere alla suggestione che quelle trasmettono.
Non è la prima volta che Etsuko Ochiai espone in Val d’Argent. La sua specialità era, ed è, la tintura indaco della stoffa eseguita con metodi tradizionali giapponesi. Per quest’opera lei ha deciso di uscire dalla bidimensionalità applicando sulla base (poliestere?) un vello di riccioli di seta, probabilmente seta grezza, un lavoro di estrema pazienza. La domanda sorge spontanea: ma come li ha tenuti assieme?
Dunque, in questi anni ho visto utilizzare di tutto nel patchwork. Oltre ai comunissimi cotone, lana, seta, poliestere, anche foglie, vetro, plastica, fili elettrici, carta, organza, pergamena, scorze d’uovo e altro ancora che al momento ricordo. Però questo materiale non me l’aspettavo, è stata una vera scoperta, uno dei lavori più intriganti dell’esposizione.
Bucce d’arancia, ecco di cos’è composta quest’opera, e vi dirò, l’effetto era sorprendentemente piacevole.
Non ho idea di come stia assieme il tutto e nemmeno di quanto possa mantenere inalterato il suo aspetto. Forse va considerato arte effimera come i mandala di granuli di pietrisco colorato del Tibet, la cui esistenza fisica è limitata, però la loro bellezza incide talmente nella memoria da garantirne un’esistenza duratura.
Confesso di non sapere cosa sia lo zumkou, potrei ipotizzare un abito tradizionale, ma non mi arrischio oltre. Pregherei chi ne sapesse qualcosa di illuminarmi in merito. Comunque questi lavori di Martine Molet Bastien sono molto belli, con i loro colori vivaci e un originale assemblaggio crazy che li trasfigura.
Veniamo ora a un’opera per la quale non trovo aggettivi (beeindruckend? Monumentale? Smisurata? Incredibile?). Fate voi.
Il Coronavirus ha cambiato molte delle nostre abitudini, e non sempre in meglio, ma il suo impatto maggiore è stato quando per frenarne la diffusione vennero applicate delle misure di quarantena. Durante quel periodo di arresti domiciliari era fin troppo facile farsi prendere dallo sconforto, perdere l’ispirazione e la felicità di creare, farsi opprimere da una visione fosca del futuro.
Cecilia Koppmann si ribellò a quello stato di cose, decise di tenere unita la delicata trama che idealmente unisce le quilter di tutto il mondo, e lo fece grazie a quell’unica finestra ancora disponibile: internet. Giorno dopo giorno diffuse in rete dei brevi filmati che illustravano le tecniche di realizzazione di un blocco, suggerendo di seguirla nella realizzazione di una trapunta. Più di 600 persone da 26 paesi diversi aderirono alla sua iniziativa, la quale in quel terribile periodo aveva quasi la valenza di una seduta psicoterapeutica.
Poteva bastare? Nemmeno per sogno.
Chiese a chi aveva partecipato di inviarle un blocco di 4″ rappresentante una casa, e dall’unione di quelle tessere è nata l’opera sottostante
Un lavoro difficile, difficile da comunicare, difficile da organizzare, difficile da assemblare, e vi confesso anche difficile da fotografare, per le sue dimensioni in primo luogo, ma anche perché attirava così tanto l’attenzione che non c’era mai la visuale completamente libera per catturare l’immagine completa.
Nel filmato sottostante Cecilia Koppmann racconta la genesi e lo sviluppo della sua iniziativa, e su in questa pagina dedicata al Quilt colectivo de la quarentena potete trovare i nomi di chi ha partecipato.
Cecilia Koppmann è argentina, e allora colgo l’occasione di mostrarvi delle opere interessanti provenienti dalle terre ispanofone, un’inserto che in questa edizione del Carrefour Européen du Patchwork ha dimostrato che esistono ancora terre da esplorare.
Immagine quasi psichedelica in questo lavoro di Blanca García. Indubbiamente le due sfere sembrano uscire dalla superficie piana della stoffa, e i richiami geometrici completano l’opera.
Forse non lo terrei appeso in casa questo patchwork, mi risulterebbe un po’ troppo invasivo esteticamente, però dovete ammettere che si tratta di una realizzazione superba.
Sicuramente più rilassante questo patchwork di Teresita Leal, un quadro pittoricamente perfetto.
Mi piace il fatto che non si è curata troppo del dettaglio, anzi alcune piccole imperfezioni rendono il tutto più naturale e fluido, mentre la scelta dei colori e dei chiaroscuri denota l’anima di una vera artista.
Carolina Oneto non avrebbe bisogno di presentazioni, in ogni suo quilt lei rappresenta spazi, volumi e colori in combinazioni sempre affascinanti, architetture tessili che si tengono in virtù di uno studio artistico (e forse anche matematico) accurato.
Isabel Muñoz è arrivata in Alsazia con delle opere di forte impatto emozionale, bianchi e neri decisi e rappresentazioni raffinate. Come sempre la mia scelta è la più improbabile, ovvero questo branco di pesci immaginari, una scelta cromatica azzardata, una scommessa comunque vinta dato che la struttura a striscioline variopinte regala a quelle figure l’illusione del movimento.
Mi ricordo di Inmaculada Gabaldón, de “La caverna de los sueños“, un quilt ammirato durante quella splendida gita che feci a Sitges. Oggi scopro che lei ama molto Venezia (ma a chi non piace?), le sue calli, la sua luce, ma è quando arriva il carnevale che lei si trova nel folle universo dell’ispirazione creativa.
Le apparenze ingannano, questo è il titolo della sua opera, e si potrebbe pensare a un collegamento tra la vanità illusoria delle apparenze e l’effimera vita delle bolle di sapone, mentre la soluzione è molto più semplice ma non per questo meno originale. La figura femminile truccata da clown è in realtà un uomo, e ciò dovrebbe farci riflettere sul fatto che in fin dei conti noi ci fidiamo delle apparenze, e da quelle ci lasciamo volentieri ingannare.
L’impressione è quella di essere in piedi sul terreno e guardare una mongolfiera che si solleva in cielo.
Anche se probabilmente si tratta della riproduzione tessile di una fotografia, Carmen Santamaria ha scelto perfettamente l’inquadratura, la prospettiva e i colori.
Hut.
Cecília e Mercè González sono le due componenti del gruppo Desedamas, che scomposto in “de seda mas” significa in spagnolo “più della seta” (cioè oltre la seta). La materia prima che utilizzano è prevalentemente la seta, la quale è di volta in volta supporto, tavolozza, pennello, luce, ombra, frontiera e cielo, con risultati sempre sorprendenti (forse anche per loro).
Da qualche tempo si stanno cimentando in esperimenti sinestetici, ovvero con il colore e la forma cercano di richiamare stimoli sensoriali diversi dalla vista, come il calore, il profumo, il sapore, eccetera.
Già nel 2015 ebbi modo di ammirare i loro richiami organolettici, ricordo bene “Käse mit Marmelade” e “Schokolade”, ma stavolta si sono cimentate in qualcosa di più difficile, qualcosa di astratto: la musica
Ecco qui sotto l’opera dedicata a Chavela Vargas, pseudonimo di Isabel Vargas Lizano, la cantante costaricana (però messicana di adozione) che segnò un punto di svolta nell’iconografia della cantante donna, perlomeno in America Centrale, al pari di quanto stava facendo negli stessi anni Marlene Dietrich, quest’ultima però riccamente supportata dall’industria dello spettacolo.
Con Frida Kahlo e Tina Modotti fece parte del trio di donne che diede una forma indipendente alla figura femminile.
Cecilia ha voluto richiamare il colore fiammeggiante delle inestinguibili passioni di Chavela, la passione per la musica, la passione per la tequila, la passione per le donne, la passione per la vita.
Dato che l’opera è sinestetica bisognerebbe anche sfiorarla con le dita per avvertire la morbidezza del velluto, la stessa delle sue canzoni struggenti e della sua voce leggermente arrochita da fumo e alcol.
Se vi stuzzica la curiosità di sapere come cantasse Chavela, ecco qui sotto una delle sue canzoni più famose “Paloma negra”, nella quale la cantante esprime il suo dolore per il fatto che una donna le aveva spezzato il cuore.
Magari a questo punto c’è chi si chiede che fine hanno fatto patchwork tradizionali, se esistono ancora.
keine Angst, c’erano anche quelli, comprese le opere Amish, però vi prego di perdonarmi, non mi sono sciroppata dodici ore di viaggio più tutte le arrabbiature per vedere cose che già bene o male conosco. Scorrendo (velocemente) le sale dove erano esposti ho potuto notare che la qualità di esecuzione è sempre eccellente, per me sicuramente inarrivabile, ma non mi dicevano molto, non lo fanno più da anni.
A ogni buon conto ecco qui degli esempi di quali opere le appassionate della tradizione potevano bearsi.
Strano ma vero, pare che anche in Australia ci siano problemi di parcheggio, e forse questa ricorrenza di tessere crazy raffigura la fatica e la pazienza per riuscire a trovare il posto adatto dove lasciare l’automobile.
Ecco l’unico quilt di Kristel Salgarollo che siamo riusciti a fotografare bene. Villa Burrus era stracolma di gente, perciò era impossibile catturare un’immagine senza che nell’inquadratura entrasse qualcosa di estraneo.
Lei ha portato in Val d’Argent un’altra opera molto interessante, una bellissima coperta/vestito patchwork con tanto di strascico (che però era sempre a rischio di venire calpestato)
Geometrica, ma non tradizionale, quest’opera di Peter Hayward, indubbiamente molto d’effetto. Mediante una sua particolare tecnica riesce a realizzare una mesh in grado di rappresentare figure molto complesse, in questo caso quasi un’immagine osservata attraverso un caleidoscopio, …
… oppure il simpatico muso di una gattina.
Miao.
Dopo tutti quegli spigoli spigoli, quegli angoli retti, quell’esattezza, consentitemi di tornare a qualcosa di più libero, più informale, più aperto all’interpretazione.
Renate Wilde ebbe un giorno l’occasione di vedere uno stormo di gru che si erano levate dalle coste del Mar Baltico per la loro migrazione verso terre più calde. Una volta perse di vista le gru immaginò di accompagnarle nel loro lungo viaggio attraverso la Germania e la Francia, e associò idealmente la loro migrazione al travaglio della nostra vita.
Gli uccelli si riuniscono in un cielo sovrastato da nuvole minacciose, e pur essendo ancora in pochi decidono istintivamente che, non potendo cambiare quel cielo, è necessario cercare un altro cielo più accogliente. Alzatisi in volo trovano altri uccelli della loro specie che condividono il medesimo desiderio, e con quelli condividono pacificamente quel cielo senza confini e le sue strade che scavalcavano anche le montagne più alte. Il tragitto è lungo e non privo di rischi, ma le gru trovano in sé stesse la forza di proseguire, sospinte dalla percezione che lo stormo è protezione, è volontà, è vita. Infine giungono, purtroppo non tutte, in quella che per loro è la terra promessa, o almeno che lo sarà fino alla primavera che prima o poi ha da venire.
E noi, come ci dovremmo comportare sotto un cielo ostile? Magari sarebbe meglio non incaponirsi nel cercare di cambiare ciò che non si può cambiare, magari dovremmo cercare negli amici e nella famiglia la forza di superare gli accidenti della vita, magari, se avremo forza e fortuna, ritroveremo finalmente la serenità, magari sarebbe meglio che la smetta di scrivere stupidaggini e che mi limiti a parlare di patchwork…
Comunque quest’opera va, secondo me, nella giusta direzione, quella che supera la mera dimostrazione di abilità tecnica per arrivare, dopo un lungo e periglioso faticoso viaggio, al riconoscimento della valenza artistica di quanto ci ostiniamo a fare con ago e filo.
Direi che può bastare.
Non è che possa scrivere all’infinito, questo post finirebbe per essere pubblicato dopo il Carrefour Européen du Patchwork del 2024, e poi rischierei di ripetermi. Se mi avete seguita fin qui sono certa che si sarà capito quali sono le mie preferenze e di come io sia rimasta molto soddisfatta di quanto ho avuto la fortuna di vedere.
Come sempre ripeto ancora una volta che questo blog riporta solamente in maniera parziale le esposizioni della Val d’Argent, parziale perché se dovessi pubblicare tutte le opere ne uscirebbe un post lunghissimo e noiosissimo, parziale anche perché io non sono imparziale. Dato che non faccio la giornalista di mestiere e che tutto, dal viaggio alla pubblicazione, è solamente frutto della passione per l’arte tessile, mi arrogo il diritto di fare le cose a mio gusto, che però ritengo non sia dei peggiori.
Un’altra faccenda che non mi stanco mai di ripetere è che le immagini pubblicate non sempre rendono giustizia alle opere esposte. La nostra attrezzatura è tutt’altro che professionale e perciò i dettagli si possono perdere, come pure la resa dei colori non è mai ottimale. Talvolta anche l’illuminazione non uniforme dei lavori ci mette del suo per rovinare la riproduzione, e allora al mio fotografo tocca penare per tentare di usare il flash in modalità indiretta, ma vallo a spiegare a chi ha scattato le foto sempre e solamente con lo smartphone, il più delle volte è meglio lasciar perdere. Perciò se volete veramente godere della bellezza delle opere dovete venire a vederle di persona, sul posto, magari non viaggiando con la nostra modalità slow & cheap, magari con trasferimenti più comodi e organizzati. Comunque se vi servissero lumi noi siamo qui.
Che altro dire?
Come ho già scritto sopra, la presenza di quilter ispanofone era abbastanza nutrita, specialmente centroamericane e sudamericane, il che ha offerto un piacevole tocco di novità a questa edizione.
Alcune fonti ben informate ci hanno riportato voci circa un certo disappunto di qualche artista francese per una tale “invadenza” d’oltreoceano, ma spero con tutto il cuore che si tratti solamente di voci infondate, oppure del momentaneo disorientamento causato da una novità inattesa. Mi risulterebbe incomprensibile un atteggiamento sciovinista, soprattutto per il fatto che l’essenza del patchwok sta nell’unione di elementi diversi dove gli uni fanno risaltare gli altri e viceversa, e lo stesso dovrebbe valere per le persone e le culture. Le nubi all’orizzonte, come già scrissi lo scorso anno, sono plumbee, la crisi economica dovuta al Coronavirus cinese ancora morde, molte bravissime artiste non stanno diventando sempre più giovani, e trovare nuove appassionate è diventato difficile, almeno dalle mie parti, perciò ogni nuovo ramoscello che dà germogli dovrebbe essere salutato con gioia, sempre, altrimenti si peccherebbe di orgoglio, e l’orgoglio, si sa, uccide.
Via allora da queste tristezze e cominciamo a contare i giorni che mancano alla prossima edizione del Carrefour Européen du Patchwork, alla prossima gita in Alsazia, all’appuntamento che rende più dolce e colorato l’autunno.
Per chi non ne ha ancora abbastanza, ecco qui sotto un breve filmato, niente di che, solamente qualche minuto di immagini delle mostre (und nicht nur), e sul mio album del 2022 di Flickr troverete altre opere che per motivi di spazio non abbiamo inserito in questo post.
Bilder aus den Vorjahren finden Sie auf den Flickr-Seiten lastoffagiusta2019 e lastoffagiusta2013.
Ringraziamenti
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Mein Sherpa / Guide / Fotograf / Webmaster / etc. ancora una volta, sperabilmente non l final.
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Mélanie della Sweet Home Conciergerie, per la cortese e puntuale accoglienza.
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Jupiter Pluvio, per averci dato buca ancora una volta.
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TER, per le sue carrozze Corail dai divani comodi oltre ogni misura.
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Die Brasserie „Le Central“ di Sélestat, ancora una volta per l’insuperabile Edelweiss.
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Die Europäische Patchwork, per tutto il loro lavoro e la perfetta organizzazione.
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La Pâtisserie Wach Benoît di Sélestat, per i momenti di “Dolce” relax
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Unsere “alt” Lumia con la sua app “Hier”, immer den Weg finden.
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Le quilter che hanno cortesemente risposto alle mie email.
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Diana Marks, per alcune interessanti informazioni sulle molas.
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Wikipedia, per tutto quello che non sapevamo.
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Il paese di Sélestat, per non essere cambiato.
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Lady Luck, per essere stata una paziente amica.
Rossana e Stelio complimenti ,io non ho questa arte nelle mani ,ma, a mio gusto sono capolavori è sempre bello guardare le mostre e entrarci dentro con il nostro gusto, questi lavori hanno la loro storia e si leggono con gli occhi e la testa.
Ein Gruß Manola
E sicuramente tu li potresti leggere anche con il cuore.
Rossana
Eccomi, sono Mattea, ed è mio il quilt “Big girls don’t cry”!
Grazie grazie grazie per le tue bellissime parole, mi fanno molto piacere.
Sono una quiltista da poco (2018) e siccome ho sempre amato fare cose “diverse” e non seguire schemi prefissati, finalmente quest’anno ho deciso di provare ad iscrivermi ad un concorso, ed è andato bene! Il soggetto mi è venuto naturale, essendo autobiografico (quanta paura da bambina)
Hai interpretato benissimo ciò che volevo trasmettere con il mio quilt; e se posso aggiungere qualcosa in più, quando si osserva il quilt più a lungo si intravvedono anche dei “mostri” tra gli alberi…occhi, facce, mani sinistre, alberi che si abbracciano. Ognuno capta figure e mostri diversi…che bisogna imparare ad affrontare..
La mia pagina Instagram è @teajurin e sarò presente a Verona Tessile nel 2023. Spero di incontrarti li! Grazie ancora
Ciao, posso dirti che l’intrico di tronchi e rami bosco trasmette un senso di minaccia già a prima vista. Questo è uno dei pregi della tua opera in quanto la paura non ha bisogno di essere osservata nel dettaglio per sortire i suoi effetti, anzi quanto più appare inafferrabile nel suo disegno tanto più si prospetta invincibile. In caso contrario, come nella tua rappresentazione artistica, osservando bene si potrebbe scoprire che un artiglio è solamente un fragile fuscello, un tronco è semplicemente legna da ardere, e una foresta altro non è che una serie di singoli elementi che sorgono dal terreno (o nel tempo) per un loro fine che a noi inevitabilmente sfugge.
Complimenti ancora.